Barbarossa di Renzo Martinelli: i commenti della critica
E anche Barbarossa viene messo sotto la lente dei critici della carta stampata e del web. Leggete con noi quello che dicono sul film di Renzo Martinelli, qui invece quello che pensiamo noi:Luciana Vecchioli – L’altro: A parte alcune falsità storiche già rivelate dagli esperti (vedere articolo di Franco Cardini sul quotidiano Il Tempo), il
E anche Barbarossa viene messo sotto la lente dei critici della carta stampata e del web. Leggete con noi quello che dicono sul film di Renzo Martinelli, qui invece quello che pensiamo noi:
Luciana Vecchioli – L’altro: A parte alcune falsità storiche già rivelate dagli esperti (vedere articolo di Franco Cardini sul quotidiano Il Tempo), il film è un noioso polpettone in costume infarcito da una lunga serie di slogan tanto cari alla Lega di oggi. Concetti e parole d’ordine da sempre sbandierati dal Carroccio, che suonano fuori luogo. Al di là delle legittime convinzioni politiche di ognuno, stupisce che un regista del calibro e della capacità di Martinelli, autore di pellicole come Vajont, abbia potuto realizzare un prodotto cinematografico così scadente, non al livello dei precedenti. Sceneggiatura sfilacciata, dialoghi eccessivamente enfatizzati, sequenze dei combattimenti poco credibili. Sembra una pellicola propagandistica, neanche riuscita tanto bene.
Alberto Castellano – Il Mattino: Alzi la mano chi sentendo parlare di Federico Barbarossa, di Alberto da Giussano, del giuramento di Pontida non è subito andato con la memoria a quei noiosi, nozionistici ripassi scolastici e non ha pensato che è materia ideale per un film fiume televisivo. È proprio da qui che è partito Renzo Martinelli, abile artigiano a suo agio con le megaproduzioni storiche, per questo «Barbarossa» costato 30 milioni con il coinvolgimento produttivo e distributivo della Rai e sponsorizzato dalla Lega che lo ha adottato quasi come un manifesto culturale, politico e ideologico delle origini della Padania e della propria vocazione autonomistica. (…) E porta i segni della destinazione per il piccolo schermo (una versione più lunga) nei dialoghi, negli interni, in certi passaggi narrativi. Profezie, stragi, battaglie spettacolari, la distruzione di Milano del 1162 e una brava Kasia Smutniak che s’impone tra gli irrilevanti Rutger Hauer e Raz Degan.
Alessio Guzzano – City: E’ Storia vecchia, ma vi sembrerà di conoscerla. Il 29 maggio del 1176, presso Legnano, l’esercito dell’imperatore Federico I, fattosi incoronare in una Roma pestilenziale, fu sconfitto della Lega Lombarda che aveva giurato a Pontida di ribellarsi a torti e dazi centralisti: il Carroccio vendicò Milano, rasa al suolo dallo stesso Barbarossa. Che qui ha il nobile volto di Rutger Hauer, mentre il mitico (ovvero: leggendario) Alberto da Giussano è Raz Degan che sembra Gesù vestito da Robin Hood. Poiché là dove c’era l’erba padana oggi ci sono solo città, Renzo Martinelli ha girato il presunto kolossal in Romania, con comparse rom moltiplicate (male) in digitale tra mura da lunapark col fumo disegnato. Il problema ideologico non esiste, tranne che per una francesina figlia d’arte, pentita di aver interpretato un’opera ‘leghista’. Il problema è narrativo. Il problema è Martinelli, regista sprezzante nei modi e con la macchina da presa. In attesa di allungarsi in tv, il film è massacrato dai tagli, superficiale, scritto e musicato senza senso del ridicolo. Umberto Bossi, che uscì coi lucciconi da “Braveheart” (chi scrive ne raccolse l’entusiasmo per “L’indipendente”), oggi ottiene un’agognata soddisfazione storico/politica. Ma nessun cinebrivido.
Maurizio Cabona – Il Giornale: Fare un film intitolato Barbarossa per decantare Alberto da Giussano (Raz Degan) è un bel paradosso. La megalomania siculo-comunista di Baarìa di Giuseppe Tornatore è sfidata dalla megalomania lombardo-leghista di Barbarossa di Renzo Martinelli. Se proprio non potete aspettare che quest’ultima fiacca fiction passi in televisione, sappiate che solo Federico (Rutger Hauer) e Barozzi (Farid Murray Abrams), milanese fedele suddito dell’Impero, sono interpretati a dovere. Il resto sono effetti speciali e immagini al rallentatore.
Maurizio Porro – Il Corriere della Sera: Mai sentiti tanti nitriti tutti in una volta, ma i cavalli sono i veri protagonisti del filmone commissionato a Renzo Martinelli dalla Lega, che lo considera il suo Eisenstein. (…) Martinelli riprende da western en plen air, quella della Romania: premonizioni della veggente all’imperatore sul pericolo della falce (senza martello), reliquie dei Re Magi, l’ amor puro di Alberto per Eleonora sopravvissuta al fulmine e perciò strega (ma alla fine bruciano un’ altra al posto suo, così c’ è l’ happy end), la distruzione di Mailand come da cartina, il taglio delle orecchie veronesi, i non casuali incontri col potere spirituale, il tentativo di unire le forze lombarde per la libertà (vedi la voce «popolo della») mentre il corrotto Barozzi (attore multiuso Murray Abraham) squarcia il velo alle monache di clausura come oggi una legge impone per il burqa. Al costoso film, che ha facilonerie, tempi, salti logici e narrativi, insomma ha l’ impaginazione classica da tv, manca ciò che interessava forse di più a Bossi, unica comparsa italiana fra migliaia di rom (che scherzo!): sono assenti ingiustificati epopea, tensione e pathos, oltre a disamina politica. E’ tutto annunciato e commesso, con qualche primo piano horror, ma il racconto non dà emozioni anche per la scarsissima presenza degli attori. Se Rutger Hauer vaga con l’ occhio azzurro nel tempo e nello spazio ma, con buona volontà, si può credere che pensi al Barbarossa, Raz Degan è maschera priva di qualunque espressione e si capisce ora quale miracolo abbia fatto Olmi in Centochiodi. Relativa miglior figura per Katia Smutniak e la «pentita» m.me Cassel, Beatrice di Borgogna, tutto sommerso in un’orgia di facile retorica che naturalmente vorrebbe essere attual-leghista.
Roberta Ronconi – Liberazione: Il Barbarossa di Renzo Martinelli pone ai critici cinematografici un serio problema. Una quesito dirimente. Ovvero: trattasi di un film o di una parodia? Non è una polemica sinistrorsa, il quesito è reale. (…) I soldi, (circa 30 milioni di euro, in gran parte sborsati dalla Rai) il regista italiano li ha avuti, e si vedono tutti in quella specie di scenografia in carton gesso della porta principale di Milano con tanto di tre torri, nella ventina di cappelletti di ferro con velina in maglia d’acciaio dei soldati, nei venti cavalli neri che corrono a perdifiato a destra e manca, nei vestiti simil-Armani delle pulzelle bionde (ogni omaccio protagonista c’ha la sua) e nei cachet del cast internazionale, che a dire il vero non fa troppi sforzi per guadagnarseli. Rutger Hauer (l’imperatore Federico), quando deve fare la faccia del cattivo sembra preda della dolce euchessina, Raz Degan (Alberto da Giussano) ha studiato la parte sulle figurine di Mel Gibson, il povero Murray Abraham (già sfigato con quel nome: Siniscalco Barozzi) ha preso la stessa purga di Hauer, ma in dose doppia. Le donne fanno solo le faccette (non viene loro richiesto altro) e quindi non valgono. Il resto, sono 12 mila comparse, tutte rumene. A parte Bossi che si è offerto gratis per una particina, ma che non siamo riuscite ad individuare. Quello che gli attori non poterono, lo fanno qualche dolly con zoomata (stile Signore degli anelli ) e le musiche rincoglionenti di Pivio & Aldo De Scalzi. La sceneggiatura è scritta da una Ong che combatte l’analfabetismo nelle langhe («adesso occupo Milano, perché sono cattivo»). Come si fa a fare la recensione di un film così? Noi ci rinunciamo. Sinceramente, non siamo all’altezza.
Cristina Piccino – Il Manifesto: Diciamolo subito: il film di Renzo Martinelli che dall’imperatore (Rutger Hauer) prende nome (chissà perché) è un brutto film, che di cinema ha poco, e nemmeno di televisione decente, i minuti che scorrono faticosamente fanno più che rimpiangere l’era degli sceneggiatoni vintage. A dire il vero ci si chiede pure che fine abbiano fatto i 30 milioni di euro del budget, tra quella profusione di ralenti, le battaglie con le stesse inquadrature, una ricostruzione di Milano quasi inesistente. Non che la fedeltà ossessiva (alla Baaria) serva a qualcosa, però qui non ci sono neppure le suggestioni, e la qualità del digitale non raggiunge la play station più arcaica. Martinelli però ha la furbizia giusta a celebrare la mitologia che la Lega ambiva, come già dimostrato altre volte (Porzus, La bambina dalle mani sporche) fino alle ultime, volgari sparate contro Polanski, con quel suo modo di maneggiare la Storia nella direzione che il potere desidera. La trama critica o le analisi sono superflui. Difatti pure qui, della vicenda complessa dei comuni italiani, che furono (te lo spiegano persino alle elementari, forse non più dopo le riforme Gelmini) realtà importanti, favorirono i ceti urbani contro i vincoli feudali e dell’impero, non c’è traccia. E non si fa menzione dei rapporti tra Roma, ovvero il papato e l’impero stesso, tema liquidato «contro» Barbarossa con la peste che scoppia appena è incoronato, arma «divina» della città eterna. Lo stesso Giussano di «storico» ha poco, essendo all’origine una figura commissionata – la inventò pare un frate domenicano – per celebrare Milano. (…) Oltre non c’è nulla. E non sorprende. C’è però da arrabbiarsi visto che i finanziamenti a questa celebrazione di partito (che nefaste memorie) arrivano cospicui anche dai soldi pubblici (Rai) mentre si taglia alla cultura.
Alberto Crespi – L’Unità: Facciamo uno sforzo. Proviamo a dimenticare che Barbarossa è al centro di un’operazione politica orchestrata da Bossi e dalla Lega. Proviamo a dimenticare che c’è stata la ridicola première al Castello Sforzesco, con il Carroccio in grande spolvero, Berlusconi benedicente e alcuni membri del governo (gli ex di An) visibilmente imbarazzati. Proviamo a dimenticare che l’ex ministro Castelli ha chiesto spiegazioni sul fatto che all’Oscar è candidato Baarìa, anziché questo gioiellino medioevale. Masì, dimentichiamoci di tutto. Facciamo finta che Barbarossa sia solo un film. Beh, è veramente un film insulso. Brutto come sono brutte le operazioni ambiziose che nascono su fondamenta malferme. Basta vedere come inizia, questo kolossal padano scritto diretto&prodotto da Renzo Martinelli (Porzus, Vajont, Il mercante di pietre). (…) La cosa più rimarchevole del film di Martinelli è l’enfasi visiva e sonora con la quale vengono raccontati fatti storici che sono in sostanza beghe da cortile (non è nemmeno sicuro che Alberto da Giussano sia esistito: Verdi, che non era un pirla, nella Battaglia di Legnano non lo mette neanche fra le comparse). Barbarossa è pieno di effettacci, di sangue, di musiche tonitruanti. Gli attori sono o statuari (Rutger Hauer) o impegnati a far le smorfie (F. Murray Abraham, Kasia Smutniak) o non sono attori (Raz Degan). Gli effetti speciali sono qua e là di sorprendente modestia: i 30 milioni di euro dichiarati saranno stati spesi altrove. La scena della battaglia, attesa per ore, dura 11 minuti ed è davvero risibile. L’operazione politica è debole e insensata: chissà se Martinelli si è reso conto di aver confezionato una fiaba fangosa e trucida in cui l’eroico Alberto è uno scemotto di paese?
Paolo Casella – Europa: Meno becero di quello che ci si sarebbe potuti aspettare (l’ha commissionato la Lega), meno manicheo dei precedenti film di Martinelli, Barbarossa resta un film tagliato un po’ con l’accetta e per il piccolo schermo. La vicenda è quella dello scontro epocale fra l’imperatore teutonico Federico Barbarossa (un regale Rutger Hauer) e Alberto da Giussano (Raz Degan), raccontata come se uscisse dalle pagine di un sussidiario. Protagonisti sono la coesione della Lega lombarda e il suo eroismo (Bossi direbbe celodurismo) nel combattere il nemico straniero. Come resoconto di un momento che fa parte della storia italiana (e non solo Padana) Barbarossa funziona, gli attori sono adeguati, la regia fluida, anche se legata all’iconografia di Braveheart. Ma ricordiamo che, se la Rai ha trovato i denari per produrre questo tele-film (col sostegno del Mibac) e distribuirlo in sala, non ha speso una lira né per la produzione né per l’acquisto de Il divo, di ben altro rilievo civico e artistico, che tuttavia non verrà mai trasmesso sugli schermi della televisione di stato.
Michele Anselmi – Il Riformista: Facile il tiro al ‘Barbarossa’, il kolossal che piace tanto alla Lega nonostante sia stato girato in Romania, utilizzando per abbassare i costi (lo fanno anche a Hollywood) comparse derubricate al rango di «zingarume». Il filmone, pensato per la tv e subìto da Raicinema, non è una riuscita, né poteva esserlo. Perché, al di là della committenza politica più o meno manifesta, operazioni di questo tipo necessitano di una struttura industriale che non abbiamo. Un ‘Baarìa’ non fa primavera, e comunque lì non ci si prende a mazzate. Andate a vedere, quando esce, il cinese La battaglia dei tre regni di John Woo, monumentale, grandioso, non troppo distante da ‘Barbarossa’ nella storia che racconta, e vedrete la differenza. Detto questo Martinelli ha un merito: gli piace rischiare, pensa in grande, insegue il mercato internazionale e il pubblico locale. Se l’ordine di Bossi sarà ascoltato («Leghisti, andate a vedere il film come se andaste a votare») è possibile che ‘Barbarossa’ incassi soprattutto in quelle ‘terre del Nord’ citate sui titoli di testa. Ma ‘Braveheart’ resta un modello irraggiungibile: per le facce, la scrittura, la potenza degli scontri all’arma bianca, l’epica e il pathos. La battaglia di Legnano, cantata da Verdi e Carducci, si trasforma qui in una sorta di scaramuccia, con qualche dettaglio sanguinolento per restituire la brutalità della guerra, anche quella per la libertà. Raz Degan ha una sola espressione: spiritata. Rutger Hauer, che parla con la voce di George Clooney, è sempre lì lì per perdere la barba posticcia.
Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano: Se l’aspirazione era quella di avere finalmente un eroe di riferimento, in Italia molti simpatizzanti della Lega Nord resteranno delusi dal tanto atteso Barbarossa, del regista Renzo Martinelli, che nelle aspettative avrebbe dovuto fornire, sia pure solo cinematograficamente, un appiglio storico sul quale fondare le loro rivendicazioni. Il film, in uscita con ben 250 copie, ha la pretesa di essere epico e invece naufraga, affondato proprio dal suo volere palesemente ammiccare a quanti cercano una storia e un personaggio credibili in cui riconoscersi. Come l’indulgere finale nell’immagine – consegnataci dall’iconografia classica – del carroccio sul quale spicca il vessillo bianco rossocrociato della Lega lombarda. E poco importa che il personaggio scelto come simbolo, Alberto da Giussano, non abbia sufficienti riscontri storici. Martinelli si è sempre mostrato regista impegnato su temi anche delicati, come le lotte interne ai gruppi partigiani (Porzus), le colpe di politici e amministratori nel dissesto del territorio (Vajont), gli anni cupi del terrorismo con l’assassinio di Moro (Piazza delle Cinque Lune) e il difficile rapporto tra islam e occidente (Il mercante di pietre). Un cinema a tesi, il suo, sulle quali si può essere o no d’accordo, ma di qualche livello. Una filmografia comunque interessante, alla quale tuttavia questa svolta più militante non giova sul piano artistico: Barbarossa – un titolo civetta per attirare un pubblico più vasto – è un polpettone indigesto ed enfatico, appena riscattato dagli effetti speciali. Se proprio si volesse cercare la prodezza in grado di giustificare il prezzo del biglietto, come si direbbe in gergo calcistico, si potrebbe segnalare la battaglia finale: in un tripudio di sangue e di magie al computer, le raffazzonate truppe della Compagnia della morte – padani impersonati da figuranti romeni, visto che le riprese sono state effettuate in Romania per contenere i costi – guidate dal temerario Alberto, sconfiggono l’esercito del Barbarossa a Legnano, il 29 maggio 1176, restituendo la libertà ai Comuni del nord. (…) La sceneggiatura, tra salti e vuoti nella narrazione, eccede in dialoghi stereotipati, non privi di retorica e, non di meno, di sicura presa quando ci si infervora contro le tasse e si incita alla lotta armata per la libertà. Le ambientazioni, poi, appaiono in alcune scene decisamente posticce, così come inverosimili sembrano gli effetti dei micidiali proietti infuocati scagliati dalle catapulte, che esplodono con fragore assordante e provocano devastazioni terrificanti. In tutto questo finisce per perdersi anche la recitazione di alcuni protagonisti che pure s’impegnano per dare credibilità ai loro personaggi. Fra tutti Rutger Hauer, un misurato, talora persino compassato Barbarossa; anche se si rimpiange il magistrale replicante di Blade Runner: a lui che aveva visto «navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione» e «i raggi B balenare nel buio vicino le porte di Tannhauser» è toccato osservare pure le mura di cartapesta di Milano, improbabili e che nemmeno noi umani avremmo voluto vedere. A reggere il racconto – 139 minuti scorrono un po’ troppo lentamente – ci prova anche il grande F. Murray Abraham, a suo agio nei panni del perfido Siniscalco Barozzi. E s’impegnano anche Cecil Cassel, imperatrice dal carattere decisamente forte, e Kasia Smutniak nel ruolo di Eleonora. Molto meno convincente Raz Degan, chiamato a incarnare un impalpabile Alberto. Un personaggio, il suo, molto distante da quel Braveheart – l’eroico scozzese William Wallace che si ribellò agli inglesi nel XIII secolo con le fattezze di Mel Gibson, che, pur storicamente approssimativo, almeno era simpatico. Non bastano una colonna sonora martellante, un po’ di immagini enfaticamente rallentate, scontri cruentissimi e una buona dose di effetti mirabolanti per creare pathos e rendere epica una pellicola, per quanto costosa. Martinelli ha insomma sprecato un’occasione.
Federico Pontiggia – Il Fatto Quotidiano: Padania e la Germania esistevano già, e pure le tasse esorbitanti (sul grano); in compenso, a Roma c’era la peste. E c’era pure il Signore degli Anelli Alberto da Giussano e la sua Compagnia dell’Anello, o della Morte, che dir si voglia. Un anello con croce e acronimo CDM è pure il gadget del film, ma anche il film è un gadget: di quel vento del Nord, che spira dalla battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 fino alla contemporanea Onda Verde. Sostenuto dal celoduristico endorsement del Senatur, ecco il Barbarossa di Renzo Martinelli, kolossal cine-televisivo dal budget di 30 milioni di dollari e cast multietnico: il tedesco Rutger Hauer è il Barbarossa, l’israeliano Raz Degan Alberto da Giussano, la polacca Kasia Smutniak l’amata Eleonora, la francese Cecile Cassel Beatrice di Borgogna e l’americano F. Murray Abraham Siniscalco Barozzi (un’antifona più che un nome…). Come dire, funzionassero i respingimenti, il film potrebbe contare solo sulla figlia di Renzo, Federica Martinelli, nel ruolo di Tessa, Antonio Cupo e sparuti altri…Vabbè, c’è di peggio: il film, appunto. Tra effetti poco speciali e libertà storiche varie ed eventuali, sgozzamenti truculenti e falci mortifere, Barbarossa si distende per 139 snelli minuti, in cui il procedere per sottrazione riguarda unicamente lo spessore delle mura della Milano che fu. Se la risciacquatura de I promessi sposi nell’Arno produsse il linguistico ‘bianco che più bianco non si può’, almeno per gli standard padani, l’immersione nel Po del Barbarossa apre a nuove gamme del (ri)pulito.
Andrea D’Addio – FilmUp: E’ dagli anni di Mister Wolf e Pulp fiction che al cinema non emergeva un personaggio cult come quello che ci regala Renzo Martinelli con Siniscalco Barozzi. (…) E’ lui il chiavistello di quell’autoironia con cui Martinelli alleggerisce i suoi centoquaranta minuti sulla composizione della Lega lombarda da parte dell’eroe Alberto da Giussano, ovvero quando vari comuni, fino ad allora indipendenti e spesso in conflitto spesso tra loro, si unirono per respingere il Sacro Romano impero germanico. Legnano 29 Maggio 1176. Quel giorno anche Siniscalco Barozzi morì, almeno secondo il film.
Partiamo da un personaggio minore per parlare di “Barbarossa” perché sono i dettagli a rendere questo film incredibile. (…) Abbiamo il classico “Roma ladrona” (buttato lì all’interno della frase: “Barbarossa… un oppressore tiranno, ridotto a simbolo di Roma ladrona”), “Libertà contro l’invasore e le tasse” e tante altre piccole frasi di apologia sul popolo lombardo, o di rabbia con chi se ne approfitta. L’impianto è quello di un film a tesi, fatto più per vedere su pellicola l’esaltazione di persone e fatti che per scavare dietro di essi, costruire un universo di significati e significanti che vadano al di là della semplice superficie, di ciò che è facilmente subito assimilabile da tutti. Chi ci vuol vedere la gloria e la forza li troverà, chi invece cercherà un’interpretazione di un momento cardine della storia d’Italia, si dovrà accontentare invece una storia romanzata e inverosimile in cui una donna ha visioni da Cassandra, le spade riflettono il fuoco e un castello bombardato notte e giorno, la mattina dopo è di nuovo completamente intatto. Martinelli non è uno sprovveduto, sa gestire le scene di massa e riesce, talvolta a costruire sequenze quantomeno interessanti, ma il montaggio, e soprattutto la sceneggiatura e i suoi dialoghi, sono completamente sotto il livello di guardia. Al Siniscalco Barozzi di cui parlavamo nella premessa, viene continuamente ripetuto nome e cognome come in una parodia di Maccio Capatonda. Nel sorprendente finale, quando si scopre chi si nasconde dietro l’armatura di un soldato, quel “hanno bruciato un’altra”, appare così assurdo da suscitare risate, così come il discorso introduttivo di Alberto prima di convincere la sua donna a farsi sposare. E vogliamo parlare di quel grido “Libertà!” di braveheartiana momoria? Tanti scivoloni che alla fine rendono “Barbarossa” un film di bassa, lega.