Avatar: i commenti della critica
La redazione di Cineblog è divisa per Avatar: c’è chi è andato in visibilio e c’è chi l’ha criticato aspramente. Noi oggi vi regaliamo le recensioni dei critici della carta stampata italiana. Da che parte state? Alessio Guzzano – City: Su Pandora la Natura è sovrana e gli uomini sono alti/alti/alti, blu dipinti di blu,
La redazione di Cineblog è divisa per Avatar: c’è chi è andato in visibilio e c’è chi l’ha criticato aspramente. Noi oggi vi regaliamo le recensioni dei critici della carta stampata italiana. Da che parte state?
Alessio Guzzano – City: Su Pandora la Natura è sovrana e gli uomini sono alti/alti/alti, blu dipinti di blu, occhi da saggi felini alieni. L’Energia Madre scorre in ogni creatura: penetrazione (!) da chioma a orecchio, da braccia a radici. Benedicono l’animale cacciato e il drago predestinato camminando su muschi fluorescenti. Per l’avida megaditta terreste e il suo braccio armato «sono tutte ecostronzate » da estirpare. Infiltrano un marine che ha perso l’uso delle gambe, ma recupererà quello del cuore: Sam Worthington entra nel corpo indigeno grazie alla scienziata Sigourney Weaver e nella spiritualità grazie alla figlia del capo. Frecce velenose contro gas e Valchirie (ricorda niente?), ma la battaglia tra tutti-buoni e molto-kattivi andrà come deve. James Cameron inventa solo la lingua dei Na’vi, il resto ha eterni echi lontani: flora, fauna e serenità più figlie di Alice e Fantasia che di Jurassic Park, tecno/idee mai rottamabili (Terminator), morale ecopacifista con picchi buddisti e sbandate new age. Usa il 3D per approfondire la Meraviglia, non per scagliarla in platea. Non è il Futuro, ma un antico filmone aggiornato agli effetti speciali: generatori di stupore, come il cinema delle origini. Ottima avventura titanica che affonda i kolossal catastrofici di Emmerich, finte c(or)azzate a picco nel ridicolo.
Paola Casella – Europa: «Gli effetti speciali sono fantastici». Di solito, quando una recensione esordisce così, l’implicazione che tutto il resto non sia all’altezza, e in parte è vero: Cameron e compagni potevano lavorare di più sulla sceneggiatura, rinnovare le tecniche di regia, chiedere più realismo agli attori. Ma Avatar è così grande e generoso nell’elargire immagini magiche e scene d’azione mirabolanti, e contemporaneamente così naif nel trattare temi “politici” come l’imperialismo americano o l’inquinamento atmosferico, che non si può non volergli bene: ed è strano provare questa forma di affetto verso un kolossal che sprizza Hollywood da tutti i pori nella confezione, perché ha dentro una visione anarchicamente infantile della vita e dell’amore, una visione da selvaggio Venerdì, altro che la semplicità degli indigeni Na’vi. Se si riesce a vedere il film come un ottovolante su cui salire senza cercare grandi significati ci si diverte davvero: altrimenti il rischio noia incombe, così come l’imbarazzo davanti a certe ingenuità narrative. Ma già: produce sempre Cameron. Sarà questo il problema?
Lietta Tornabuoni – La Stampa: Molto, molto bello: e intelligente, divertente, commovente. Avatar, termine derivante dal sanscrito che significa «incarnazione», introduce alla storia su Pandora, una luna del sistema Alpha Centauri ricca d’un minerale prezioso capace (come il petrolio) di risolvere la crisi energetica della Terra. (…) Avatar di Cameron (anche produttore) non ha nulla del grosso giocattolo filmico, non cerca effetti mirabolanti né personaggi epici: è più contemporaneo e anche più scaltro, nell’aria del nostro tempo sta dalla parte delle vittime. (…) La linea narrativa è esattamente la stessa di Balla coi lupi di Kevin Costner (salvo che in quel film 1990 le vittime erano ancora gli indiani d’America) e appartiene a un classico filone democratico del cinema americano. Non manca invece il contrasto tra militari e scienziati, artificio e Natura, fragilità tecnologica e forza umana. Si sa che il regista ha aspettato per anni che lo sviluppo della tecnologia gli permettesse di girare Avatar come voleva. Il processo chiamato «performance capturing» e i progressi compiuti nell’animazione dalla società Weta del regista neozelandese Peter Jackson glielo hanno consentito: il risultato è straordinario. Certo, la tecnologia è andata più avanti del moralismo: le donne azzurre di Pandora portano tutte il reggipetto.
Alberto Crespi – L’Unità: Se dal punto di vista narrativo Avatar è una fiaba d’azione di ottimo livello, dal punto di vista tecnico è un film epocale. Un critico avrebbe il dovere di capire quando si trova di fronte a un’opera di svolta: beh, secondo noi Avatar lo è. Criticarlo perché la trama ricicla temi e snodi narrativi già noti sarebbe come accusare Dante Alighieri di aver scritto l’ennesimo viaggio agli inferi (dopo Omero e Virgilio, un altro!?), per di più ricalcando spudoratamente la cosmogonia di San Tommaso d’Aquino. Avatar incrementa il linguaggio cinematografico non solo per le innovazioni tecniche ma per come le mette al servizio delle emozioni. È un’evoluzione netta della «performance capture», quel sistema che consente di creare personaggi digitali applicando sensori al corpo degli attori: così hanno realizzato Gollum nel Signore degli anelli, così hanno creato i Na’vi di questo film. Ma la cosa più straordinaria è la creazione ex novo, al computer, di un intero ecosistema. I momenti più incredibili del film sono quelli in cui Jake, attraverso il suo avatar, si muove nelle giungle di Pandora e impara a conoscerle. Nulla di ciò che vedrete è vero, eppure ogni singolo filo d’erba (digitale) è vivo, e l’idea che i Na’vi siano «in rete», in connessione con l’ambiente, le piante, gli animali è l’aspetto al tempo stesso più poetico e più tecnicamente strabiliante del film. (…) James Cameron è un regista recluso e misterioso, senza il gusto per il lavoro di squadra che contraddistingue registi-produttori come Jackson, Lucas o Spielberg (…) Ma con un’accoppiata come Avatar e Titanic ha dimostrato di essere veramente «oltre». Andate a vedere il film con gioia e non curatevi di chi lo demonizza o lo snobba: tutta invidia.
Giancarlo De Cataldo – Il Messaggero: A leggerlo con una certa attenzione, di là dalla spettacolarità degli effetti e dalla seduzione del 3-D, Avatar conferma una legge costante del grande cinema americano: dietro ogni blockbuster che si rispetti non c’è solo l’industria, di solito tacciata di cinismo (ammesso che investire per incassare sia un crimine), ma un intelligente connubio fra tradizione e modernità. Almeno a partire dalla saga di Guerre Stellari, dalla tradizione deriva il mito, la modernità ci mette le tecnologie e le tematiche di attualità. In queste operazioni, certo, i plot soffrono di una certa ripetitività, il lieto fine è d’obbligo, e noi non crediamo mai sul serio che l’eroe ci lasci la pelle. E però è dai blockbuster che si comprende la “temperatura emotiva” dell’America, ciò che alla gente sta più a cuore. E maggiore è la risonanza fra la storia raccontata e il sentimento della gente, maggiore è il successo. Per intenderci: se la lotta fra i Jedi e Darth Vather prefigurava la consapevolezza di forze oscure all’attacco della democrazia (il reganismo? Il post-capitalismo?), Avatar, oltre i trucchi e il digitale, è, da un lato, un omaggio critico alla Storia americana, dall’altro un grido d’allarme in chiave ecologista. Da un lato, i Pandoriani sono visti da Cameron come i Navajos e i Sioux di Piccolo grande uomo e di Soldato blu: vittime di un genocidio che, perpetrato in nome degli sporchi giochi economici, distrugge non solo un popolo, ma altera l’equilibrio stesso fra uomo e natura. Dall’altro lato, il saccheggio delle risorse e la devastazione della terra non riguardano più solo un clan, una tribù o una nazione, ma l’intero pianeta. Pandora come metafora della Terra, senza nessun compiacimento identitario- i bianchi colti e ricchi rimediano una figuraccia, davanti ai generosi “selvaggi”- sa molto di spirito democratico e Obamiano. Completa il quadro un’iconografia dichiaratamente new-age, fatta di corpi filiformi e asessuati, culto della Dea Madre, comunione organica fra tutti gli esseri viventi del pianeta. Come dire: carichi di sensi di colpa per i danni arrecati in passato, in un momento di crisi, per scongiurare nuove sciagure, ci aggrappiamo alla saggezza degli antichi. La nuova sfida di Hollywood sta dunque in questa domanda di fondo: ci salverà dalla catastrofe un’inedita alleanza fra progressismo e misticismo? A giudicare dai risultati di Copenaghen si direbbe proprio di no. Ma perché disperare? Dopo tutto, chi l’ha detto che il lieto fine esiste solo al cinema?
Mariuccia Ciotta – Il Manifesto: (…) Avatar corrisponde alla sua ambizione trans-epocale, è la forma stessa della fusione tra analogico e digitale, si costituisce come superamento dell’uno e dell’altro, è un pianeta-film ibrido per corpi ibridi. Né umani né alieni. La forza di gravità del kolossal di James Cameron ha già attratto milioni di abitanti virtuali, spettatori sull’orlo del suicidio pur di dematerializzarsi e assumere il Dna degli abitanti di Pandora. Il successo del film dice la follia politico-esistenziale degli orfani di questa Terra, e il radicale e spasmodico desiderio di cambiare mondo, se il nostro non è più riformabile. Ansia di metamorfosi. Un successo che suona l’allarme per i columnist intergalattici, i «moderatori» dell’immaginario, scesi numerosi sulle colonne dei giornali per imbrigliare le pulsioni violente del pubblico di massa, e pronti a denunciare l’estremismo infantile di Avatar. Per ristabilire l’ordine (ir)reale costituito e riconfermare il loro status di sentinelle della cultura, ricorrono a concetti come stereotipo, favola, manicheo, che detto per il cinema, con disprezzo, fa ridere. Decodificata da almeno un secolo di visioni, la narrazione simbolica ha i suoi linguaggi ed eroi, i suoi rimandi alla memoria collettiva. Le armi spuntate dei centristi non avranno la meglio, ma se è giusto «spaventarsi» davanti ad Avatar, è meglio recuperare la capacità di «vedere». Anche con i molesti occhialetti in 3D. Gli «stereotipi» dichiarati del film compongono un’opera che cambia la percezione sensoriale, e fa di ogni spettatore un perfetto avatar, un «doppio», oltre il processo di identificazione (…) Essere l’altro e rimanere se stessi. (…) Giustamente, la destra Usa se n’è lamentata e ha bollato il film con un-american. Sì, perché Jake Sully, infiltrato tra gli alieni alti tre metri, capelli rasta, abiti piumosi e imperlati, un po’ Apache, un po’ Maori, sceglierà il suo avatar per lottare contro il colonnello Miles Quaritch, feroce e pazzo come il Robert Duvall di Coppola, quello che al suono della Cavalcata delle Valchirie (il modulo di Quaritch si chiama Valchiria) sganciava napalm sulle foreste vietnamite.
Natalia Aspesi – La Repubblica: Nel caso del fastoso e costoso film di Cameron è ovvio che solo i lunatici, i noiosi, i caratteriali, gli eremiti, gli anacoretie pure l’ abate Faria, non andranno a vederlo, visto che è dal 1995 che se ne vagheggia e i primi fan saranno ormai canuti se non addirittura smemorati, mentre una notizia quotidiana sulla spettacolare opera ci rallegra da ormai qualche anno: se poi uno sconsiderato volesse saperne di più su Internet, verrebbe immediatamente travolto da un tifone di 595 milioni di articoli, un eccesso per chiunque. Perplessi saranno i leghisti, perché su Pandora gli extracomunitari che mettono in pericolo la sicurezza dei suoi abitanti con necessità di ronde per difendersene, sono mascalzoni bianchi, mentre i loro avatar sono pericolosi clandestini; mentre quelli che dovranno studiare una loro Bossi-Fini sono giganti verdi di pelle e di ecologia, col vitino di vespa e le piccole natiche da modelli fashion, con enormi occhi gialli, orecchie da volpino sulle tempie, lunga treccia e lunga coda che s’ intrecciano ambiguamente. Quante volte abbiamo visto un film tale e quale, con il cattivo invasore che perde e il buon selvaggio che vince, e il giovane straniero che s’ innamora riamato della bella indigena? Non manca qui la scienziata brusca e il capotribù saggio, più carri armati volanti ed enormi galline-jet. Quanto agli effetti tridimensionali, dopo cinque minuti non te ne accorgi più, tanto vale vedere il film senza occhialini che almeno non viene il mal di testa. È meraviglioso che la gente riempia i cinema e che si lasci ancora incantare. Ma forse perché i vecchi appassionati di film ne hanno visti tanti, per quel che riguarda la fantasia, la visionarietà, l’ emozione, ne ricordano di meglio: non si dice “Il viaggio nella luna” di Méliès, anno 1902, ma almeno “Il signore degli anelli” di Jackson, di quell’anno ormai lontanissimo che è il 2001.
Michel Maffesoli – Il Giornale: Dolce follia? Sfrenato irrazionalismo? Innocuo capriccio? I quesiti sono tanti. Di certo c’è, dopo altre pellicole analoghe, l’uscita del film Avatar di James Cameron, fenomeno innegabile, segno del nuovo spirito del tempo. Le cifre parlano. Milioni di spettatori o l’hanno visto o lo vedranno, doppiato in una lingua o in un’altra. Poi c’è il merchandising, a dimostrazione che la tematica e il modo di trattarla corrispondono all’attesa del pubblico. «Fenomeno» è ciò che si vede e si vive. Lo è il ritorno della fantasia, del fantastico, del fantasmagorico e di altre simili frivolezze. Potete arricciare il naso, disgustati, ma Avatar ricorda la prevalenza della magia, anzi della «tecno-magia», indizio fra tanti del «reincanto del mondo». Il Signore degli Anelli aveva preparato il terreno. (…) Il successo di film come Avatar ci rammenta che, alla lunga, le società hanno bisogno di miti. Li fondano, li rifondano o s’annidano in quelli sempre esistiti, in una forma o in un’altra. Avatar riprende la vecchia, eppur nuova figura del mito del «doppio». (…) Avatar sottolinea questa atmosfera del meraviglioso, dove paura e fascino sono inestricabili.
(…) Ed ecco la fantasia, del ludico e dell’onirico insieme, ispirarsi al ricordo. Il film Avatar lo sottolinea con vigore. In tal senso è in sintonia con la circostante voglia di magia, col desiderio che rifiuta la stabilità, l’egemonia economica, e che fa sua alla lettera la frase di Friedrich Nietzsche: «Diventa ciò che sei senza mai smettere d’imparare». (…) Avatar, saggezza demoniaca della postmodernità agli albori!
Valerio Caprara – Il Mattino: Se la domanda fosse «vale la pena di vederlo», la risposta sarebbe sì, naturalmente. Con la raccomandazione di cercarvi lo schermo più grande possibile e l’apparato audio/video al massimo livello. Qualora v’interessi andare al sodo e sapere se il film è bello, la risposta è ancora un sì convinto. Se a questo punto però pretendereste la notizia di un nuovo capolavoro firmato James Cameron, dobbiamo optare per il no: per niente apocalittico, polemico o malevolo, ma pur sempre un no. «Avatar», rigorosamente da vedersi nella profondità di campo suggestiva (ma non sconvolgente) garantita dal 3D, riflette più di una curiosa contraddizione dell’autore. Si tratta, innanzitutto, di un poema fantascientifico officiato sull’altare della meraviglia tecnologica e in particolare dell’avanzatissimo processo di computergrafica denominato performance capture che si fa, però, portatore della più scontata e nostalgica elegia di un mondo primitivo ed ecologico. Una specie di parabola new age o neo hippy inserita nell’ingranaggio colossale e rutilante di un blockbuster di ultima e costosa generazione. Certo davanti a un film che aspira a essere di culto è un po’ pedante concentrarsi sulla trama, che dovrebbe e vorrebbe essere a rimorchio di una scrittura inventiva, alcuni personaggi memorabili e un «quid», spesso misterioso, di saggezza, suspense ed emozione. (…) È del tutto evidente come la chiave narrativa si rispecchi nei classici film pro indiani della Hollywood progressista: purtroppo, però, in quelli che si limitano a rovesciare banalmente il razzismo – da «Soldato blu» a «Pocahontas» – piuttosto che in quelli tormentati e anti-manichei come «Piccolo grande uomo» o «Un uomo chiamato cavallo». (…) È il problema di fondo dello splendido, ma un po’ labile spettacolo di Cameron: il grande trasporto e la straripante energia indirizzati verso lo stupore visivo e fantastico non ricevono ulteriore impulso dalla ristrettezza dei motivi interiori, esistenziali.
Paolo Mereghetti – Il Corriere della Sera: (…) Dove Cameron convince meno è nella troppo superficiale lettura dello scontro tra terrestri distruttori e nativi difensori della natura. Se il problema del riequilibrio ecologico del nostro pianeta è di stringente attualità, il modo migliore per ricordarlo non è certo riducendo tutto a una specie di favoletta mistica dove militari muscolosi e affaristi senza cuore interpretano i cattivi: la voglia di surclassare il ricordo degli elicotteri di Apocalypse Now in un finale eccessivamente bellicista (in fondo i Nàvi combattono con arco e frecce contro missili e mitragliatrici) finisce per immiserire tutto. Senza peraltro cadere in scene particolarmente cruente o sanguinarie: nessun corpo squarciato, nessun fiotto di sangue che invade lo schermo, nessuna scena da far chiudere gli occhi nemmeno ai più giovani (certo, non ci porterei un bambino che ha meno di 8/9 anni, ma per la complessità della storia, non perché qualche cosa possa spaventarlo). Finendo così per soffocare anche i possibili riferimenti al passato degli Stati Uniti e alla sua «conquista» del West (che per molti versi è ricordato dal selvaggio pianeta Pandora): piuttosto che riflettere sui limiti della propria civiltà, come faceva Arthur Penn in Piccolo grande uomo (anche lì c’ era il tema del bianco che «tradisce» la propria razza), Cameron sembra accontentarsi di rispolverare la favola di Pocahontas. Ma nella versione Disney, non certo in quella di Terrence Malick.
Francesco Bolzoni – Avvenire: (…) Mai abbiamo assistito, in un film di fantascienza, a scene così insolite, così suggestive. Non c’è un momento di pausa in un lungometraggio anche troppo lungo. Esso procede su tre tappe: la scoperta di un mondo ‘altro’, la sua conoscenza dall’interno dovuta all’amicizia che si fa amore tra l’esploratore e la principessa, la guerra di liberazione conclusiva. Non tutto nell’opera di Cameron è adatto agli spettatori più giovani; piacerà invece agli adolescenti e a molti adulti, che seguiranno senza mai distrarsi i notevoli effetti speciali inventati dal regista e valorizzati dal 3D. (…) Il film è costato parecchio, 800 milioni di dollari, ma non paiono soldi sprecati, se si giudica la spettacolarità complessiva dell’opera.
Maurizio Cabona – Il Giornale: Avatar (…) capovolge l’ideologia dell’«arrivano i nostri» a danno dei marines degli Stati Uniti, perché i buoni sono gli abitanti del pianeta che hanno invaso. Così, risparmiando sulle sfumature e ignorando l’ironia, insomma evitando le ambiguità, Avatar si sottrae alla sorte d’incomprensione toccata al solo film di fantascienza dove i terrestri fossero i cattivi: Starship Troopers di Paul Verhoeven. Cameron evoca in Avatar una guerra spaziale che ricorda ogni guerra coloniale e neocoloniale degli Stati Uniti e dei loro alleati. Vi troveranno dunque un esiguo risarcimento morale pellerossa, messicani, filippini, indocinesi, nicaraguensi, salvadoregni, grenadini, panamensi, iracheni, somali, sudanesi, serbi, afghani, yemeniti… Anche gli indios dell’Amazzonia, sempre che possano vedere il film, riconosceranno nella scena dei bulldozer che deforestano la loro quota di dramma. (…) Si può dedurre poi che l’attrito fra Hollywood e Washington, anche la Washington «abbronzata» della Casa Bianca, sia ormai incandescente, altrimenti nessun consiglio d’amministrazione avrebbe investito in Avatar una cifra enorme. Investimento oculato, a giudicare dagli incassi. Oltre una certa dimensione, il fatto economico diventa però politico: l’adesione di una vasta massa essenzialmente giovanile a un film che mostra la sconfitta del proprio Paese e il rimpatrio dei prigionieri modellato sulle immagini dei rimpatri dal Vietnam. Salvo «alcuni, trattenuti»:per crimini di guerra e contro l’umanità (di Pandora)… Come si spiega questa svolta senza resipiscenze, senza il minimo cerchiobottismo? Messo in cantiere al minimo della popolarità di George W. Bush, il film è stato finito quando ormai era chiaro che la sua politica militare gli sarebbe sopravvissuta. Di qui l’esasperazione dei toni, che sono passati dal pacifismo al bellicismo autolesionista. È infatti la prima volta che una superproduzione americana rappresenta non solo il rifiuto di obbedire agli ordini da parte di marines, corpo scelto di volontari, ma anche il passaggio di alcuni di loro dalla parte del «nemico». Avatar è insomma Balla coi lupi in versione spaziale. Ma ci sono citati molti altri frammenti di storia del cinema. (…) nel film di Cameron ci sono tracce di L’amante indiana, Soldato blu, Piccolo grande uomo, Pocahontas, Apocalypse Now, The New World, Apocalypto, Geronimo (il cui protagonista, Wes Studi, è nel cast), Alien (idem per Sigourney Weaver). L’elenco di questa chiamata a raccolta del cinema americano revisionista potrebbe continuare: corrisponde alla chiamata a raccolta di tutti (bestie incluse) i pandorani contro l’invasore. Manca solo il grido: «Hasta la victoria siempre!».
Fabio Ferzetti – Il Messaggero: Tre ragioni per non perdere Avatar. (…) Nessuno aveva mai dato tanta evidenza fisica al sogno molto contemporaneo di vivere dentro un altro corpo, più forte e potente, che per giunta dà accesso a un universo ricchissimo e in tutto diverso dal nostro. Pochi l’hanno notato, curiosamente, ma è questo “trip” il cuore del film (millenni di paradisi artificiali, dall’oppio alla realtà virtuale, stanno lì a ricordarcelo). Che l’impresa richiedesse tutti gli artifici del 3 D è della “performance capture” è un paradosso solo apparente. Cameron ha aspettato anni pur di conferire massimo realismo a questo sogno folle e umanissimo, oggi incredibilmente vicino grazie ai progressi scientifici (protesi, chirurgia plastica, bioingegneria etc.). Basterebbe questo a fare di Avatar un film capitale. Ma c’è una seconda ragione: il pianeta Pandora. L’équipe del film ha creato un mondo di enorme fascino e complessità, sia biologica che culturale (piante, animali, usanze, linguaggio) pescando suggestioni dai più diversi orizzonti ma prendendo il tutto molto sul serio. Ne esce un pianeta che è una specie di dio vivente dove ogni specie, indigeni, piante, animali, è mentalmente e perfino fisicamente connessa alle altre (come, lo scoprirete al cinema). Liquidare il tutto come scontato omaggio alla “moda” ecologista è davvero riduttivo. Infine, la storia. È vero, Avatar non brilla per novità. È vero che quel pianeta da conquistare ad ogni costo è l’America dei pellirossa, il Vietnam, l’Iraq, tutto ciò che volete. Mentre l’impossibile amore fra il marine-avatar e la bella guerriera Na’vi che lo protegge e lo inizia al suo mondo evoca certamente Pocahontas. Ma Cameron riscrive fiabe e miti fondanti nella storia americana travasandoli in un mondo e un linguaggio nuovi. Conosciamo già i “cattivi”. Ma dei buoni che cavalcano creature alate connettendosi con loro fisicamente e mentalmente (ancora due corpi in simbiosi totale), non li avevamo ancora mai visti. Se Pandora non ci fosse bisognerebbe inventarla. Appunto.
Roberto Silvestri – Il Manifesto: Oltre due ore e mezzo di avventure nella fantasia che ci faranno «cambiar paradigma». Su cos’è un film, su cos’è il cinema (imax, 3d, digitale…). E indirettamente sulla scienza, sulla storia e su quel processo di trasformazione (migliorare il mondo) che chiamiamo rivoluzione. (…) Emmerich è un cristiano che fa kolossal blockbuster pseudo-fantasy, Cameron è un mutante fantastico, molto eretico, che li decostruisce.
Federico Pontiggia – Il Fatto Quotidiano: Segnatevi questa data: 18 dicembre 2009. E se vostro figlio vorrà fare (storia e critica del) cinema, confidatela pure a lui: la ritroverà sui libri, prima che poi. Il 18 dicembre 2009 è stata la data di uscita globale di Avatar (…) Una data da mandare a memoria, perché di Avatar, se non quanto, possiamo già dire come e perché rivoluziona per sempre il cinema come lo conosciamo. Concepito 15 anni fa e partorito solo ora, per i mezzi finalmente messi a disposizione dalla tecnologia, Avatar non solo riscrive, anzi sovrascrive, il genere fantascientifico, come puntualmente avvertito dalla critica Usa e plaudito da uno che se ne intende, Steven Spielberg, che l’ha salutato per impatto come un nuovo Guerre stellari, ma riaffeziona il pubblico al sogno del cinema, al sogno industriale della settima arte, perché fa venir voglia di sapere prima di tutto, prima della storia stessa, come è stato realizzato, come tutto ciò sia stato (reso) possibile. Se doverosi ringraziamenti vanno portati a Peter Jackson e alla sua neozelandese Weta Digital, che ci ha messo più del solito zampino, il merito principale è ‘banalmente” di Jim Cameron, che ha inventato la Virtual Camera per riprendere non gli attori nel Volume, il teatro vuoto in cui si muovono a uso e consumo della performance capture e della motion capture, bensì il prodotto (semi)finito, ovvero il loro alter ego (avatar, appunto) risultante dalle immagini CG (Computer Grafica) inviate dai computer posti sul perimetro del Volume. Nessuno l’aveva fatto prima, e non c’è bisogno di saperlo per comprenderlo: parleranno i vostri occhi. Non bastasse, è arrivata pure la Simul-Cam, per integrare in tempo reale personaggi e ambienti CG con le sequenze live-action (in carne e ossa, in poche parole) e vederli nella Fusion Camera, e poi… c’è il 3D. Che Cameron usa come se lo facesse da sempre, senza cedere a facili lusinghe – corpi e oggetti gettati in platea a fare “spettacolo” – per creare profondità di campo, che dal Quarto in poi fa appunto Potere cinematografico, e rendere attivo e “regista” lo spettatore, ponendo virtualmente la camera tra di noi, per inquadrare nuche e felci davanti a tutto come diaframma, ossia tangibile spia, scoperto accesso della nuova visione possibile. Se, a tal proposito, A Christmas Carol era un buon antipasto, Avatar è un pasto completo, che non ha bisogno di altre portate, condizione necessaria e (più che) sufficiente per chiedere, se non pretendere, dal cinema qualcosa di più, qualcosa di meglio. A partire da oggi. (…) Avatar ha anche una storia, nutrita innanzitutto di Storia del Cinema, alta e bassa in sinergia, come piace a un autore spettacolare come Cameron, vecchia e nuova: da Alice nel paese delle meraviglie, quando scopriamo il pianeta Pandora e ci batte il cuore, al Viaggio sulla luna di Méliès, addirittura passando per i Terminator di casa Cameron, fino a Robocop, Matriz, A.I., Star Wars, Stargate e ai coevi District 9 (fondamentale, per il ribaltamento del Noi e Loro) e Il mondo dei replicanti, per approdare all’inestinguibile tenerezza di E.T. Perché la science fiction di Cameron – che prossimamente prenderà da Asimov, darà un sequel ad Avatar o racconterà una Hiroshima inedita, o tutte e tre le cose – è umana, irrimediabilmente umana, nella misura più alta, più piena, quella della gratuità: Avatar dona all’altro dando il privilegio principe della nostra razza, quello di dare un nome alle cose e un’identità alle persone.
Boris Sollazzo – Liberazione: Raramente si era visto un successo commerciale e di critica così clamoroso come per l’ Avatar di James Cameron. Pallini, stellette, voti e ovviamente incassi, tutti hanno dato il massimo. (…) Non si può dar loro torto, sua maestà James Cameron si è superato: il papà di Terminator, Abyss, Alien e Titanic , dopo dodici anni torna e ci stupisce e sconvolge con quella che è un’esperienza sensoriale ed emotiva travolgente. Se la sceneggiatura e il soggetto, per sua stessa candida ammissione, non hanno nulla di originale e si immettono nel genere classico dell’incontro tra razze che diventa immedesimazione o invasione (c’è tanto western nella sua fantascienza, Piccolo grande uomo su tutti), della guerra come male supremo – c’è molto del nostro immaginario nelle scene belliche molto tradizionali: Apocalypse Now , ma anche l’11 settembre nell’albero che cade sui Na’Vi, nel buio di polvere e paura che li assale – dell’amore come chiave per superare orgogli e pregiudizi. Si può anche notare come l’antimilitarismo sia, grazie al cattivo Stephen Lang e all’insopportabile Giovanni Ribisi, così evidente da essere elementare. E che infine il politicamente corretto è persino estetico, oltre che etico: i Na’vi sono bellissimi, azzurri e frutto di mescolanze di tratti somatici ispanici, afro e nativi americani (…), mentre i bianchi, schiavi di multinazionali che assomigliano tanto ad Halliburton e soci, invece sono odiosi già alla vista, a esclusione di un’ingentilita Sigourney Weaver, la scienziata “buona” Grace Augustine. E Cameron, spulciatevi i nomi dei personaggi, si diverte persino a dare nomi bellocchiani per mostrarci ancora meglio buoni e cattivi. Questo è James, epico ed etico da sempre, semplice, assoluto, grandioso. E creatore di mondi: sì, perchè la forza è tutta lì.
Marilisa Palumbo – Europa: Alla fine c’è pure Celine Dion. No, d’accordo, è l’X factor britannica Leona Lewis, ma ascolti I see you e ti viene da cantare la “titanica” My heart will go on. Vedi il protagonista Jack Sully e senti nostalgia per il Kevin Costner di Balla coi lupi. Guardi l’aliena Neytiri e pensi a Pocahontas. Se il vostro cinema non fa parte di quel dieci per cento abbandonante di sale nazionali che proiettano in 3D, potete anche risparmiarvelo: Avatar è un film già visto. Cattivi da copione, duri col cuore tenero, manifesto ecologista da far impallidire Al Gore e le sue scomode verità, buonismo a go-go, amore al primo sguardo. Ma se entrate in una sala che proietta una delle 414 (su 932) copie 3D in circolazione non perdetevelo: è un film mai visto. Sorprendente al punto da impedirvi nei primi minuti di seguire i dialoghi tanto è lo stupore per la nuova esperienza visiva in cui vi state calando. Avere l’impressione che Sigourney Weaver vi stia venendo incontro è già causa di sufficiente turbamento, ma è solo quando riaprite gli occhi assieme a Jack dentro il pianeta Pandora e con lui vi immergete nel nuovo mondo alieno che il miracolo di James Cameron piano piano si compie: vi arrendete ad Avatar e accettate di buon grado la sospensione totale dell’incredulità. Per tutto il tempo del film, abitate anche voi una foresta con fiori e alberi dalle forme più strane, meravigliosamente luminosa anche di notte, e creature, come ha detto il critico Paolo Mereghetti, a metà tra l’animale preistorico e le bestie dei compendi medievali. Sentite il vento tra le piante, volate sulle cascate e tra le montagne fluttuanti, vedete gli oggetti venirvi addosso, e avete l’impulso di schivarli. È questo e solo questo l’Avatar imperdibile. Tra la proiezione tradizionale e quella 3D c’è la stessa differenza che passa tra l’avatar di un videogame – la semplice rappresentazione sullo schermo del giocatore – e l’avatar com’è inteso nella teologia induista, ossia come incarnazione. Senza gli occhiali magici, noterete solo la pigrizia di Cameron, che non si diverte neanche con le parole (il minerale che gli umani cercano su Pandora si chiama “unobtanium”, e nella lingua Na’vi pare che vento si dica “vind”). E a colpirvi sarà soprattutto il moralismo di un film che la destra statunitense ha criticato come antiamericano (c’è anche una frecciatina alla guerra preventiva) e senza dio (per il suo panteismo naturalistico) ma in realtà è, ancora una volta, una storia sull’uomo bianco, il suo immaginario e il suo modo di raccontare le storie (gli amati alieni blu Na’vi si salvano solo grazie al marine Sully). Per non parlare – come hanno notato in molti – dell’ironia di un’apologia del contatto con la natura contrapposto alla tecnica realizzata con le tecnologie più moderne e costose che Hollywood abbia mai visto. Ma, appunto, Avatar non è una storia, ma un mondo. Gli spettatori sembrano averlo capito.
Alessandro Boschi – Liberal: E adesso, povero cinema? Che sarà adesso del cinema, specialmente di quello povero, dopo che James Cameron ha di nuovo colonizzato la nostra immaginazione come all’epoca fece con Terminator? Sembra essere passato un secolo, e forse cinematograficamente è così. (…) Va subito detto che il regista riesce come nessun altro a coniugare l’evoluzione tecnologica del cinema con una formidabile resa economica. (…) Forse, allora, sarebbe il caso di pensare a coniugare un nuovo termine, il Cameronismo, che anche se può sembrare un pericoloso ibrido tra “camerata” e “peronismo” servirebbe a rendere omaggio a un autore che checché se ne dica riesce sempre a stupire. E ad attirare l’attenzione di filosofi, sociologi, tecnocrati, psicologi, storici, religiosi e chi più ne ha più ne metta. Si è anche parlato molto delle sigarette fumate da Sigourney Weaver e negli Usa alla pellicola è stato assegnato il “Polmone nero”. Di fatto, come sempre accade di fronte a un’operazione di così vasta portata, si è scatenata la corsa verso l’accaparramento ideologico. Il film in effetti (come tutti i film, sia chiaro) è una imponente metafora con le più svariate sfaccettature. Ma alla fine, come sempre, vincono i buoni. Si è parlato di metafora ecologica, di apologo pacifista, di ritorno del Buon selvaggio, di lotta tra palazzinari che abbattono le foreste. Probabilmente è tutto vero. Ma come spesso accade, sono cose alle quali nel momento della realizzazione non rappresentano la precipua preoccupazione dei realizzatori. E un po’il vizio dei critici oltranzisti, vale a dire voler vedere nei film qualcosa che in realtà non c’è. O, se c’è, c’è n’è caso. Avatar è un film grandioso ma anche un grande film. Il che non significa che ci abbia strappato l’applauso. Ma è difficile rimanere impassibili di fronte a qualcosa che ci sembra destinato a lasciare il segno nella storia del cinema. Non è un caso se anche uno dei critici più scettici come Roger Ebert ha ammesso che dopo essersi seduto in sala ha ricevuto la stessa impressione provata nel 1977 durante la visione di Star Wars (e di essere stato costretto a ricredersi come per Titanic). Il fatto è che il regista Cameron riesce quasi sempre a mantenere ciò che promette. Si può non essere d’accordo sulla sua scelta tecnologica così dannatamente estrema, sul fatto che dopo aver visto per la prima volta un film in 3D abbia dichiarato che non avrebbe mai più realizzato un film “normale” così decretando la fine, dal suo punto di vista, del cinema tradizionale (ebbene sì, per noi è sempre “viva il 2D!”). Ma poi dimostra immancabilmente di essere in grado di padroneggiare le nuove tecniche di ripresa come nessun altro. Non solo, dimostra anche di saperle portare sempre un po’ più oltre. Ma c’è anche un’altra cosa in Avatar che ci dà la sensazione di trovarci di fronte a una svolta. Magari è solo una bislacca sensazione, pari a quelle dei critici oltranzisti citati sopra… ma a volte le storie portano al loro interno, più o meno consapevolmente, dei segni del destino.
Michele Serra – La Repubblica: Chi vede nella tecnologia un fattore di disumanizzazione, e teme che la geometrica potenza degli effetti speciali sfratti dallo schermo la semplicità dei sentimenti, vada a vedere Avatar, e ci porti tranquillamente anche i bambini. Se Avatar ha un difetto non è certo la lussuria ottica. È il moralismo da fiaba edificante. Quel moralismo che è una delle nervature fondamentali (e immortali) del cinema americano. Vincono i buoni (e ci si commuove), e i cattivi in rotta abbandonano la scena in catene. L’estasi spettacolare, le montagne di denaro speso, l’alea di “salto d’epoca” dal punto di vista tecnologico, sono l’involucro rutilante di un buon vecchio film d’avventura a lieto fine. Più dei nemici della contraffazione tecnologica, saranno dunque i nemici del politicamente corretto ad avere qualcosa (anzi, molto) da rimproverare a James Cameron. Il film è una specie di sunto trionfante dell’intera vulgata “buonista”, come direbbe la destra a corto di sinonimi. (…) Nè gli effetti speciali nè il 3D nè, in futuro, l’ologramma che ti riaccompagnerà a casa in macchina dopo il film, riescono a rimediare a questo piccolo grande vizio del cinema popolare americano: dopo trenta secondi hai già capito chi è il buono, chi è il cattivo e chi si innamorerà di chi. E Avatar non fa eccezione. Detto questo, il film è un magnifico polpettone ecologista e anti imperialista, magari un po’ frastornante per quelli delle generazioni arcaiche: diieorentre quarti di 3D, con i visori calati sul naso, mi hanno prodotto una qual certa emicrania, con sussulti di nausea. E la sequenza bellica finale, mezz’ora buona di botti, luminarie, collisioni, inseguimenti, è decisamente troppo play-station per uno che preferisce il calcio Balilla. Ma la trama, per quanto tirata in lungo, alla fine ti conquista, la meraviglia di molte inquadrature lascia incantati e conferma che il cinema è ancora e sempre un’imbattibile scatola dei sogni, le creature della computer graphic sono sode e credibili quanto i giocattoli per un bimbo che li ami, li maneggi, li renda parlanti. Per giunta, senza bisogno di essere accaniti cinefili, in Avatar ci si può divertire (gioco nel gioco) a trovare rimandi e citazioni di tutte o quasi le più insigni americanate di celluloide, dal suddetto Balla coi lupi a Mission a Apocalypse Now a Guerre stellari a Soldato blu, e gli appassionati di fantascienza riconosceranno negli enormi volatili cavalcati dagli alieni il segno ispiratore del grande Moebius. Possono scoraggiare (e in parte mi è accaduto) alcuni ostacoli di ordine anagrafico e neurologico. L’ammasso di visioni mirabolanti, paesaggi inediti, bestie mai viste, esperienze oniriche, non lascia tregua, e vista una medusa d’aria non fai in tempo a godertela nei dettagli che appare un’oca-drago, o un camaleonte-trottola, il tutto avvolto da gorghi di luce, abissi vegetali, vertigini prospettiche. Avatar ti seduce a strati, a gragnole, a bordate, come se ormai la meraviglia si dovesse e si potesse raggiungere solamente per accumulo, per quantità stordenti, e mai per sottrazione, per concentrazione, per intuizione. Il vuoto e il silenzio, la riflessione e l’elaborazione psicologica sono gli unici effetti speciali che mancano in Avatar, ma probabilmente questo è un problema solo per chi non ha i neuroni già impostati per l’iperbole sensoriale nella quale vivono e crescono i nostri figli. Impareranno a difendersi da soli, o forse hanno già imparato.
Gian Luigi Rondi – Il Tempo: Un film mastodontico. Intanto da un punto di vista tecnologico: il digitale ultima generazione ha il 3D a suo sostegno. Poi dal punto di vista degli incassi: negli Stati Uniti i più alti ottenuti in passato, pronti adesso ad essere probabilmente imitati anche da noi. (…) I ritmi, spesso incalzanti, possono suggestionare, le immagini, in cifre d’incubo, possono conquistare (almeno la vista). Questo voleva Cameron e questo ottiene. Il resto, almeno a me, interessa poco, ma non mi sostituisco al pubblico. Sigourney Weaver è la scienziata che sa come fabbricare avatar, il marine è l’australiano Sam Worthington. Convince di più con la coda.