Alita – Angelo della Battaglia, recensione: variazione a tema post-apocalittico che convince solo a metà
Facendo leva su un immaginario familiare, Alita – Angelo della Battaglia non riesce a dare contezza dei certi significativi spunti che eppure fornisce, mostrando i muscoli giusto a tratti
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Tutti vogliono andare su a Zalem, questa città fluttuante sotto la quale, nella Città di Ferro, gli abitanti non possono far altro che sognare. E di certo c’è un mondo dietro Alita – Angelo della Battaglia, fatto di dinamiche specifiche, meccanismi che rimandano ad un immaginario che in fin dei conti si conosce, tra un Il quinto elemento ed altri contesti da Sci-fi distopico. Il Dr. Dyson Ido (Christoph Waltz) recupera la testa di un androide dal nucleo ancora intatto, rovistando tra le scorie, la spazzatura che quotidianamente cade dal cielo, prodotta lì, esatto, proprio in quel paradiso al quale si agogna, Zalem.
Ido la ricostruisce, le dà un corpo, lui che è anche e soprattutto un eccellente ingegnere; non solo, le dà anche un nome, ossia Alita. Alita non ricorda alcunché, non sa nemmeno come addentare un’arancia, ma è capace di sentirne il gusto. Tuttavia, lì da qualche parte, i ricordi ci sono ancora, si tratta d’innescarli, sebbene ogni tentativo di forzare il processo si rivela inefficace. A un certo punto però un’idea comincia a farsi strada, ed il viaggio di Alita, così come la sua missione, divengono chiare, a lei anzitutto.
Poco sopra si è alluso a Il quinto elemento di Luc Besson, ma se si considera che Alita è a sua volta basato su un testo preesistente, ossia il manga di Yukito Kishiro, Gunnm, non è assurdo guardare pure ad altre fonti d’ispirazione, consapevoli o meno, tipo Pinocchio, per dirne una, così come, sempre per restare in ambito letterario, quel Racconto di due città scritto da Dickens sul quale potrebbe basarsi l’idea di un sopra e un sotto, metafora nemmeno tanto sottile rispetto a sfruttati e sfruttatori. D’altronde lo si dice in più di un’occasione: lì sotto, nella Citta di Ferro, solo i più forti sopravvivono, non c’è posto per gli innocenti (si noti, peraltro, che il finale è aperto ad un potenziale sequel).
E che dire delle enormi implicazioni di questo cyborg che viene trasferito in un altro corpo, mentre cerca suo malgrado di ricostruire un passato che certamente ha avuto, ma di cui nondimeno sa nulla? Tante le ispirazioni di Alita, che in questi lunghi anni di gestazione è finito col doversi confrontare con un’industria che è cambiata, elemento che, per la scala del progetto, non può che aver influito in maniera determinante. Troppo leggero per accostarsi alle tematiche di un Ghost in the Shell, dunque, ma non abbastanza per dover necessariamente ripiegare, come da un certo punto in avanti fa, nell’ennesimo teen romance. Sulla falsa riga dei vari Divergent, Hunger Games e film rivolti a quel target specifico, anche quello di Rodriguez non fa che adeguarsi.
Ed è un peccato, perché le premesse sono altre, e a più livelli. Anzitutto la fonte, di ben altro spessore rispetto alle saghe appena menzionate; ma, se vogliamo, anche in relazione alla resa visiva del tutto, Alita starebbe su un altro gradino, non ultimo l’uso tutto sommato armonioso della computer grafica, che però finisce stranamente per non incidere più di tanto. Al passaggio dall’Oriente all’Occidente, perciò, resta poco di quel quadro post-apocalittico alla base, ridotto a uno sfondo, un abbozzo tutt’al più, rispetto a ciò che poteva e doveva essere. Un contesto in cui i temi che dovrebbero trainare si riducono a scenografia, qualcosa da ostentare, sebbene appunto non se ne capisca fino in fondo il motivo, privi di profondità come sono, così per come ci vengono proposti quantomeno.
Alita è perciò un film su cui per forza di cose pesa l’essere probabilmente arrivato a noi fuori tempo massimo, debitore inadempiente nella misura in cui non fa fruttare quanto legittimamente mutua da altre parti, nemmeno da quel Rollerball a cui forse, per certi versi, si avvicina più che ad altri. A scanso di equivoci, non dispiacciono certo le rielaborazioni, anche perché chi scrive si tiene a distanza da qualsiasi forma di culto dell’originalità; purché, ad ogni buon conto, si tratti di una base da cui partire per acconciarsi una qualche identità, ambizione non alla portata di Alita, che vive di momenti, a fronte di una tenuta generale non altrettanto entusiasmante. E non è edificante quando un film, nel suo insieme, è così palesemente inferiore rispetto ai suoi passaggi più riusciti.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
Alita – Angelo della Battaglia (Alita: Battle Angel, USA/Canada, 2019) di Robert Rodriguez. Con Rosa Salazar, Christoph Waltz, Jennifer Connelly, Michelle Rodriguez, Jackie Earle Haley, Ed Skrein, Keean Johnson, Mahershala Ali, Eiza González, Lana Condor, Marko Zaror, Elle LaMont e Jorge A. Jimenez. Nelle nostre sale da giovedì 14 febbraio 2019.