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Cannes 2019, Le daim, recensione: un Dupieux più piccolo ma non meno sopra le righe

Festival di Cannes 2019: Quentin Dupieux torna con quel surrealismo tutto suo, piacevole anche in formato ridotto

pubblicato 15 Maggio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 19:22

George (Jean Dujardin) si ferma presso una stazione di sosta con la sua auto. Lo seguiamo mentre si avvia verso il bagno e tutto procede in una piatta ordinarietà. Finché lo straordinario, il grottesco, non irrompe per la prima volta: si toglie il cappotto e lo infila nel water. Mentre l’acqua fuoriesce dalla tazza intasata, cominciamo a chiederci che cosa stia accadendo, il perché di quel gesto. Ma è inutile, non funziona così. Anche perché di lì a poco George incappa nell’incontro che gli cambia l’esistenza, ossia quello con un cappotto scamosciato.

Dupieux è lo stesso di Rubber, uno perciò che non è nuovo a certi scenari in cui sono le cose a farla da padrone. Traducendo quasi letteralmente quella massima tanto cara agli epigoni di certo minimalismo, ossia che le cose che possediamo finiscono col possederci, Le daim procede sul binario dell’assurdo pur di dare ragione a quanto celano queste parole. Non ci si mette molto, infatti, prima di scoprire qual è il piano, ossia quello di far scomparire tutti gli altri cappotti del mondo. C’è un che di più profondo in questa apparente stupidaggine, che assume un senso proprio in funzione del fatto che l’indumento scamosciato prende vita (o come se fosse). Senza movente o ragioni varie, una volta che la missione è chiara gli eventi vengono irrimediabilmente messi in moto.

Ma al momento di acquistare questo particolare giubbotto (una compravendita ridicola, che si chiude a svariate migliaia di euro), a George viene anche consegnato in regalo qualcos’altro: una videocamera. Una di quelle piccoline, pratiche, che registrano su MiniDV. Allora non si tratta più soltanto di fare, ma anche di filmare quel fare nel suo compiersi. In questa di per sé esilarante parabola del filmmaker, il lavoro di Dupieux acquisisce spessore, pur restando, dall’inizio alla fine, un film piccolino, senza oggettive pretese. Ad aiutarlo c’è il personaggio interpretato da Adèle Haenel, una barista che pare prendere a cuore l’impresa e decide di aiutare George. Il loro rapporto, per quanto professionale, per così dire, non è meno sopra le righe: lei rifornisce lui di denari e consigli, mentre lui va in giro ammazzando persone per poi togliere loro i cappotti che indossano.

Munito di un’elica sottratta a un ventilatore, e tramutata in una specie di machete, George passa in rassegna varie fasi del fare film, dall’improvvisazione alla messa in scena, finendo col curare persino l’inquadratura, in un primo momento accantonata. Il suo grado d’alienazione pare peraltro andare di pari passo col feticismo per lo scamosciato: poco alla volta, infatti, George ottiene anche dei pantaloni, poi dei guanti. E così diventa ancora più efferato ancorché glaciale, scagliando questa sua furia all’apparenza inesistente verso il primo che gli capita a tiro, e sempre per la medesima ragione, ossia sottrarre quel maledetto cappotto.

In tutto ciò Dupieux non disdegna la somministrazione di alcune dosi di nichilismo, tuttavia più significative di quello che sembra, come certe fugaci immagini a mo’ di National Geographic di questi camosci che corrono lungo certe distese – al di là di una tenuta generale da commedia nera. Come leggere tutto ciò? Ci si può provare, senza però pretendere di aver trovato una soluzione. Da un lato l’accostamento, ossia il ricordarci che questo siamo, animali che che si muovono in branco, talvolta solitari, con tutte le ripercussioni del caso. Oppure potrebbe trattarsi di un’indicazione circa il desiderio di rivalsa ad opera della povera bestia, che, dopo essere stata squartata, intende vendicarsi su coloro che lo hanno torturato e scuoiato per il solo gusto di coprirsi in maniera più elegante.

Il punto tuttavia è che niente di tutto ciò è davvero chiaro, e di film come Le daim s’ha da godere sul momento, senza sovrimpressioni o ricami postumi. Ben meno denso ed arzigogolato del suo precedente lavoro, l’ottimo Reality, Dupieux riesce ugualmente ad infondere pure qui qualcosa, anche optando per una scrittura semplice, che vive di exploit. Ciò che unisce i suoi ultimi due film è una certa ossessione, di gran lunga più straripante nel penultimo, verso il processo, quel farraginoso, a tratti vertiginoso percorso che porta alla creazione. In Reality valeva per lo più per la sceneggiatura, mentre qui il nostro ha a cuore il filmare, nonché la sua successiva rielaborazione – il personaggio della Haenel si occupa del montaggio e lì impara ad amare ciò che fa Georg. Affare da matti insomma, da gente spostata di testa. Uno sguardo stravagante che anche a basso regime riesce ad affascinare.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Le daim (Francia, 2019) di Quentin Dupieux. Con Jean Dujardin, Adèle Haenel, Albert Delpy, Pierre Gommé, Laurent Nicolas, Coralie Russier, Stéphane Jobert, Marie Bunel e Panayotis Pascot. Quinzaine des Réalisateurs

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