Giornata mondiale della lentezza, Cineblog vi propone 27 film per l’occasione
Mentre nel mondo si celebra la Giornata della lentezza, non possiamo esimerci dal soffermarci sull’argomento, essendo il Tempo elemento quintessenzialmente legato al Cinema
Mercoledì 27 febbraio 2019, Giornata Mondiale della lentezza. Fa quasi sorridere che in un’epoca come la nostra si celebri qualcosa del genere, a dire il vero così antitetica rispetto a un mondo, quello Occidentale almeno, che pare aver relegato concetti del genere ad un passato che, a sentire alcuni, certe cose poteva permettersele (sic). Scriviamo concetto, vero, ma in realtà non c’è nulla di astratto in quanto presuppone e comporta la lentezza: significa concedersi il giusto tempo per fare qualcosa, quale che sia la declinazione di questo “fare” (pensare, osservare, ragionare, discutere, riposare etc.).
L’otium letterario dei latini stava su un altro piano, avente peraltro accezione positiva, nobile addirittura: le Lettere non come mero passatempo per chi non aveva altro da fare. Oggi è obiettivamente difficile anche solo proporre valori del genere, su cui in tanti pare si sia d’accordo, salvo poi farsi travolgere da altre urgenze, la vita che incalza, le cose di ogni giorno, insomma, che finiscono sempre con l’avere la priorità. La lentezza come un lusso perciò, cosa da ricchi, ché gli altri debbono pensare a portare il pane in tavola.
Eppure altri sono gli scogli, altrove risiedono le ragioni principali per cui lenti proprio non vogliamo esserlo, oppure, se lo siamo, tendiamo a guardare la cosa con sospetto, come se si trattasse di un male da cui dover guarire. Non dirò che si tratta di un valore assoluto; certe sentenze vanno necessariamente lasciate a chi ha più spazio nonché desiderio di approfondire discorsi così complessi. Certo è che la distrazione, nemico numero uno della lentezza, in questo periodo più che mai sembra mietere numerose vittime. Vittime che poi, e ci dirigiamo a bomba sull’oggetto di questo nostro scritto, finiscono col fare fatica a guardare certi film.
Andrebbe fatta e poi illustrata per bene la distinzione tra Arte e Intrattenimento, andando nel merito, al di là dei giudizi, di certe predilezioni; ma non c’è tempo (appunto), né spazio, perciò confidiamo nel buon senso, oltre che nella pazienza del lettore, il quale ci scuserà se troppo viene dato per scontato in ciò che segue.
Mi fa piacere infatti proporvi alcuni titoli, non troppi, da cui partire, a cui rivolgersi, allorché si parla di “lentezza” al Cinema. Concetto evanescente, abusato, che la Critica ha a ragion veduta in larga parte cassato, specie in considerazione dell’accezione che ha assunto il termine «lento» se accostato a un film. Certo, per facilitare il ragionamento talvolta si cede a simili scappatoie, ma sono anni che tale dicitura ha poco senso, qualora ne avesse mai avuto. La stessa definizione di Slow Cinema mi è sempre parsa limitante, addirittura fuorviante, proprio perché non è così immediato il concetto di Tempo rispetto a un film, ergo il solo rischio di confondere le idee mi pare ragione sufficiente per poterla accantonare.
Tuttavia è oggettiva l’esistenza di opere cinematografiche che optano per una sintassi e finanche una grammatica diverse, in cui le classiche regole valgono fino a un certo punto, oppure affatto. Film che mettono in discussione le formule, non per forza negandole, anzi, talvolta implicitamente dando loro forza, poiché nella contrapposizione spesso vengono evidenziate differenze anziché gerarchie, per cui mostrare perché una data fattispecie è differente da un’altra significa “fare un favore” ad entrambe anziché stabilire necessariamente quale delle due sia la migliore.
È chiaro poi che ciascun autore o anche solo regista adotta un proprio linguaggio, e con esso fa una scelta, che è sempre estrema, in quanto sullo schermo, alla fine, vediamo il film così per com’è, un solo modo che esclude tutti gli altri, potenzialmente infiniti. Persino in certe sue storture contemporanee certo cinema hollywoodiano (sì, sempre lui) il più delle volte appare consapevole nel suo porsi, non di rado smodatamente, in netta distanza proprio da quel tipo di opere che, al contrario, non ha tra le sue priorità quella di chinarsi verso lo spettatore.
Tocca a questo punto sgomberare il campo da un equivoco che tanto danno ha fatto e continua a fare: lungi infatti dal porsi sistematicamente in una posizione di voluto antagonismo rispetto allo spettatore, succede che certo ritmo, certi tempi dilatati di un dato film non siano espressione di una non meglio precisata “alterigia”, il volersi insomma dare un tono operando preventivamente una cernita vagamente darwiniana. Che tale processo poi si verifichi, beh, è naturale, poiché ciascuno ha i propri gusti, o per lo meno, in un senso o nell’altro si è “vittime” d’impostazioni in larga parte condivise per cui vi è l’accettazione oppure il rigetto rispetto a film considerati “lenti”. In tal senso cultori e detrattori non sono tanto diversi, rappresentando le due facce della stessa medaglia: la loro predisposizione o il loro rifiuto è nella stragrande maggioranza dei casi “ricevuto”, ossia espressione di un’implicita, talvolta addirittura inconscia uniformità rispetto ad un dato gruppo, per cui o si osanna oppure si guarda con sfavore a un dato fenomeno.
Poco alla volta, e non senza difficoltà, lo ammetto, ci avviciniamo a ciò che intendo dire. L’oggettività nell’Arte è infatti una chimera con la quale in tanti, troppi si sono confrontati, spesso e volentieri uscendone oltremodo ridimensionati nelle ambizioni a seguito della sua ricerca. E se non è questo il contesto anche solo per fornire seppur vaghe definizioni di termini come Arte e Intrattenimento, figurarsi se intendiamo imbarcarci in dissertazioni ancora più ardite come quella appena evocata.
Nondimeno ho voluto rivolgermi allo spettatore, partire da lui in quanto componente essenziale dell’equazione, per tentare di fare capir come mai certi film, accomunati da un elemento sì essenziale ma in maniera quasi incidentale, come il fatto di negare certe regole volte a tenere desta l’attenzione del pubblico attraverso escamotage e misure “di mestiere”, ebbene, come mai questi film siano importanti, forse i più importanti, non di per sè magari, ma per ciò che rappresentano. E perché, dunque, anche a costo di farsi quel pizzico di violenza che è salutare anziché no, sarebbe il caso di sforzarsi di vederli, di assistere a ciò che intendono dirci, sia rispetto alle storie che raccontano, ma soprattutto al modo in cui le raccontano.
E qui torno all’alterigia menzionata sopra. A differenza infatti di altri, che indebitamente si appropriano di procedure e linguaggi che non gli appartengono, cercando di sfruttare a proprio favore la buona disposizione di certa Critica, oppure, al contrario, la sua mancata cognizione di causa, questi film, ma soprattutto questi autori, seccamente, non partono dal presupposto di un pubblico selezionato, rivolgendosi a pochi eletti. Al contrario, certi loro film trasmettono una fiducia quasi cieca nella possibilità che le loro opere siano davvero alla portata di tutti, o che quantomeno debbano esserlo. Non riesco ad immaginare, per dirne alcuni, un Bergman che gira anche solo uno dei suoi tanti lavori avendo in testa “l’intelligente tipo”, quello che ne capisce o vuole capirne, così come non riesco a pensarlo, malgrado tutto, di un Antonioni. Men che meno dei vari Tarkovskij, Dreyer, Ozu, Mizoguchi, Bresson, o il più recente Sokurov; senza soffermarci su altri nomi che però operano nell’ambito della sperimentazione, per cui andrebbe fatto un discorso a parte, tipo Mekas, Brakhage, Warhol o Snow.
I nomi appena citati tendo infatti a darli per scontato: troppo riduttivo fermarsi a un solo film, o per lo meno, chi scrive è pigro abbastanza dall’aver preferito non cimentarsi nemmeno nell’arduo compito di sceglierne anche solo un paio per regista. Discorso analogo, va detto, lo si potrebbe fare pure in relazione alla maggior parte dei registi dei film che menziono di seguito, se non fosse però che così si finirebbe per parlare troppo per sommi capi, mentre invece qualche indicazione più precisa è doveroso darla. Ed allora eccovi ventisette titoli che “celebrano” a loro modo la lentezza, o per meglio dire, la presuppongo: non sono loro infatti ad essere lenti in senso stretto, bensì pretendono, questo sì, che lo si sia noi nell’accostarvisi. Fosse anche solo per questa sorta di costrizione, beh, basterebbe ciò a renderli un’esperienza imprescindibile, quale di fatto sono.
Circa il modus operandi: ho volutamente inserito parecchi registi ancora attivi. È evidente che non tutti lo siano, ma una discreta parte sì; non solo, dato che, tra questi, una cernita ulteriore è stata operata rispetto a film che sono espressione di una maturità acquisita, dunque in alcuni casi recenti. Questo perché, anzitutto, più che alla Storia, quantunque importante ed il cui studio resta fondamentale, preferisco guardare in particolar modo al presente, chiarendo che non solo certo Cinema è ancora possibile ma che lo si fa eccome. In secondo luogo, questa mia scelta dovrebbe in teoria agevolare nell’ottica di futuri lavori, così da poterli recepire in quanto espressione non solo del proprio tempo ma anche in funzione di una “poetica” in divenire, una delle attività fondamentali ancorché maggiormente disattese a cui la Critica è chiamata. Ce ne sono degli altri? Che domande! Certo, come sempre.
FILM PER ANNO
La jetée (1962), di Chris Marker
Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975), di Chantal Akerman
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), di Pierpaolo Pasolini
L’uomo che cadde sulla Terra (1976), di Nicolas Roeg
Fitzcarraldo (1982), di Werner Herzog
Pauline alla spiaggia (1982), di Éric Rohmer
Boy Meets Girl (1984), di Leos Carax
L’isola del tesoro (1985), di Raúl Ruiz
Il sapore della ciliegia (1997), di Abbas Kiarostami
Paesaggio nella nebbia (1988), di Theo Angelopoulos
La sottile linea rossa (1998), di Terrence Malick
Le armonie di Werckmeister (2000), di Béla Tarr
Yi Yi (2000), di Edward Yang
Millennium Mambo (2001), di Hou Hsiao-hsien
Il grande silenzio (2005), di Philip Gröning
Colossal Youth (2006), di Pedro Costa
Le quattro volte (2010), di Michelangelo Frammartino
C’era una volta in Anatolia (2011), di Nuri Bilge Ceylan
Two Years at Sea (2011), di Ben Rivers
Tabu (2012), di Miguel Gomes
Stray Dogs (2013), di Tsai Ming-liang
Historia de la meva mort (2013), di Albert Serra
At Berkeley (2013), di Frederick Wiseman
Storm Children, Book One (2014), di Lav Diaz
Jauja (2014), di Lisandro Alonso
Mektoub, My Love: Canto Uno (2017), di Abdellatif Kechiche
Long Day’s Journey into Night (2018), di Bi Gan