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Blake Edwards e Mario Monicelli: maestri di vita non solo di risata

Più giovane di sette anni del grandissimo Monicelli se n’è andato il grandissimo Blake Edwards. E’ curioso: entrambi sono stati considerati in vita, e ora dopo la dipartita, maestri della risata, ognuno con le sue caratteristiche e risorse. Maestri, tenuti a bada da parte della critica, anche la meno seriosa, che ha bisogno di generi,

pubblicato 18 Dicembre 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 16:51

Più giovane di sette anni del grandissimo Monicelli se n’è andato il grandissimo Blake Edwards. E’ curioso: entrambi sono stati considerati in vita, e ora dopo la dipartita, maestri della risata, ognuno con le sue caratteristiche e risorse. Maestri, tenuti a bada da parte della critica, anche la meno seriosa, che ha bisogno di generi, movimenti, tendenze per esistere.

Non starò qui a dolermene. Conosco i miei polli. Conosco le vischiosità delle idee sbagliate e dei pregiudizi che vanno giù come palafitte. Mi scandalizza però, e non da oggi, che il cinema dei nostri tempi soffra da chi ne scrive di un trattamento superficiale, destinato nel tempo a diventare punitivo.
Non ho mai incontrato Blake come invece avevo incontrato, più volte, Mario. I rapporti personali contano. Ma conta anche il modo con cui si guarda la loro opera.

Occupiamoci di Blake, a bara calda, forse l’avranno già cremato, pace alle sue ceneri. Io sento il bisogno di lasciare le ceneri alla terra a cui siamo destinati a tornare, e di dire sommessamente qualcosa su di lui e sul suo genio di intrattenitore (che, a mio parere, equivala a quello di grande artista). Non voglio parlare, alle solite, dei film sulla Pantera rosa o sull’ Hollywood Party. Voglio invece soffermarmi su Victor Victoria (1982), terza versione cinematografica di una commedia tedesca del 1933 scritta da Reinhold Schunzel. Anni Trenta, anzi esattamente l’anno, proprio il 1933, in cui andò al potere un signore con i baffetti, i capelli brillanti e mosci, che si chiamava Adolf Hitler. Un anno bieco in cui se ne andava la Berlino del cinema espressionista e del cabaret.

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Nel 1972 “Cabaret”, film di Bob Fosse, ambientato nel ’31, mostra le prime svastiche, lo scatenamento delle persecuzioni degli ebrei, la sofferenza e la fine dei meravigliosi attori e cantanti in spettacolo satirici destinati a diventare muto.

“Victor Victoria”, come si ricorderà, si fonda sul tema pregnante, e nella commedia anche simbolo, del doppio. Una donna che si sdoppia in un uomo per smettere di sopravvivere e cercare di vivere (come cantante, come persona).

Se nel ’33 l’autore della commedia Schunzel presentava al pubblico tedesco una realtà ambientale circostante, in cui o si sdoppiavano o non avrebbero sopravvissuto o vissuto; nel 1982, ovvero quasi mezzo secolo dopo Edwards tornava in un diverso contesto sul tema dei temi del nostro tempo.

Lo sdoppiamento è tornato fondamentale ovunque, in ogni ambito. Il nostro tempo più di ieri impone il gioco delle maschere, non una ma più maschere, maschere che devono calarsi dentro di noi, materializzarsi in cambi di genere fra maschile e femminile, maschere buone nel sesso e nelle situazioni sociali.

Oggi non si può, e non si vuole più, possedere una faccia, un corpo, un’anima sola. Edwards per farci capire quel che sappiamo e che facciamo fatica a rivelarci, anche se siamo costretti dal vivere per vivere, usa la commedia, la commedia musicale. Si ride, anzi si sorride per la regia, gli attori (Julie Andrews, Robert Preston, James Garner), le battute, l’ironia dei bozzetti parigini e dei parigini. Ma un certo allegro invito a guardarci allo specchio per prendere una decisione sulla maschera o sulle maschere da indossare, ci arriva e noi lo accogliamo, anche senza saperlo. Blake, maestro di vita.