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Roma 2010: qui e altrove manca un Poeta

Ben detto. Paolo Mereghetti, che scrive sul Corrierone, si è domandato: dove guarda oggi il cinema? Risponde che al Film Festival romano si ha la conferma di una tendenza in atto nel mondo, soprattutto nelle vetrine festivaliere. Il cinema guarda ai tanti temi della realtà, esposti anche all’Auditorium come panni esposti al sole (e alla

pubblicato 4 Novembre 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 18:40

Ben detto. Paolo Mereghetti, che scrive sul Corrierone, si è domandato: dove guarda oggi il cinema? Risponde che al Film Festival romano si ha la conferma di una tendenza in atto nel mondo, soprattutto nelle vetrine festivaliere. Il cinema guarda ai tanti temi della realtà, esposti anche all’Auditorium come panni esposti al sole (e alla pioggia, ha piovuto fitto fitto): la crisi della scuola, la sottomissione delle donne, la violenza quotidiana, la malattia, la morte e poi l’arretratezza cultural dell’India, i tabù dell’Iran, il genocidio dei curdi, le malefatte del governo inglese. Sembra l’ordine del giorno di una seduta dell’Onu, non il programma di un festival, dice Mereghetti. Giusto.

La tendenza sta diventando irresistibile e quasi obbligatoria. La si può capire. I fatti veicolati a tamburo battente dalle tv e dai giornali diventano obbligatori per gli schermi. Dall’altra parte, in minoranza, c’è il cinema della fantasia, dei cartoni, della fantascienza, del 3d. Non sembra un fenomeno transitorio, anzi. Ormai è una “abitudine” obbligatoria, mi pare. Un punto che suscita discussioni e prese di posizione. Tanto è vero che la rivista “Micromega”, tentando un bilancio del cinema impegnato, osserva che ormai i temi hanno conquistato tutto lo spazio possibile, e hanno imposto la tendenza di cui stiamo parlando che sembra irreversibile.

Si sta allargando, aggiungo io, una forma di conformismo pericoloso, tossico per le sorti del cinema stesso che non alcun interesse a iscriversi nel destino della grancassa mediatica, ovvero ai film che ripetono le break news, i telegiornali, gli speciali, i doc televisivi. Pericoloso e tossico perché il conformismo del linguaggio cinematografico oggi produce solo una ripetitività desolante.

Annoto questa situazione nei giorni in cui viene ricordato a trentacinque anni dalla morte tragica di Pier Paolo Pasolini, scrittore, regista e poeta. Pasolini, nel suo cinema, è stato soprattutto poeta, o meglio Poeta. I suoi film si distinguono per un’estetica che va di pari passo a un’etica che va a fondo nei personaggi e nelle storie (di tutti, di tutti noi, di ieri e di oggi).

Come succede nel grande cinema di sempre: potrei fare un lungo elenco, da Billy Wilder a Hitchcock, da Rossellini a Fellini, a Francis Ford Coppola, e così via, la “realtà” che essi propongono sta nel mondo ma non è preda indiretta, e in ritardo, della cronaca immediata, spesso chiusa in sé, nel clamore sterile dell’attualità.

Senza poeti il cinema morirà a lungo, in tormenti atroci (i brutti film tematici presenti sempre più ai festival). I poeti non s’inventano. Un Pasolini, come disse Moravia al funerale di “Accattone”, compare una volta in un secolo. Era una iperbole ma anche un rimpianto per un autore creativo, per una creatività libera e aperta al gioco meraviglioso dei registi e del cinema che non rinunciano a raccontare “le realtà” con il dono del talento e del rispetto delle esigenze d’emozione e di idee del pubblico che vuole sottrarsi agli incantamenti quotidiani delle tv e chiede, spesso senza saperlo, la mano di un poeta. Per esistere. Non da consumatore passivo.

Festival di Venezia