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Venezia 2010: Domani si chiude, intanto un altro best seller

Venezia. I critici, i giornalisti? Tanti Ponzio Pilato. Hanno inventato i giudizi a colpi di palle: da uno a cinque. La palla più frequentata è: “si può vedere”. In questa pilatesca formula magica si può chiudere il bilancio della Mostra: domani nel tardo pomeriggio si saprà com’è andata la lotteria dei premi. In coda a

pubblicato 10 Settembre 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 20:38


Venezia. I critici, i giornalisti? Tanti Ponzio Pilato. Hanno inventato i giudizi a colpi di palle: da uno a cinque. La palla più frequentata è: “si può vedere”. In questa pilatesca formula magica si può chiudere il bilancio della Mostra: domani nel tardo pomeriggio si saprà com’è andata la lotteria dei premi. In coda a tutti i film lo stratteso Barney’s Version di Richard J. Lewis, tratto dal best seller di Mordechai Richler; e Road to Nowhere di Monte Hellman. Penso che anche in questo caso venga voglia di usare la formula che mette al riparo di chi scrive ogni responsabilità. E’ la minima scommessa che si può fare, in nome delle sorti belle e non dei film morti, in nome del cinema che ci piace tanto difendere.

Quindi, mi adatto al ponziopilatismo imperante avvertendo che si tratta, per quanto concerne i miei gusti, una soluzione quanto mai adeguata alla qualità delle due pellicole: la prima di produzione canadese e italiana; la seconda americana a cura dello stesso regista. Se andate, e poi vi incazzate o arrabbiate, prendetevela con gli autori.

Cominciamo da “Barney’s Version” per il quale è indispensabile un breve antefatto. Il bel libro di Richler in Italia è stato pubblicato da Adelphi ma deve molto, se non tutto, del suo record di vendite e di echi pubblicistici, alla grande campagna a favore che fece “Il Foglio” di Giuliano Ferrara. Azzeccatissima, al punto da creare, quasi, un fenomeno di costume. La voglia della coproduzione, penso, si debba anche a questa vicenda molto insolita nel campo della stampa ancella di libri e di film da promuovere col piedo giusto. Ma la vera risorsa della intera vicenda di Barney e della sua versione della vita, sta proprio nel racconto e nel protagonista del romanzo che sono affascinanti.

Basterà dire che è la storia di un uomo apparentemente comune, come il catalogo si affretta a precisare, che però ci fa da guida nella sua esistenza in cui tutto corrisponde famiglia, attraverso il padre dai comportamenti stravaganti; donne e un amico dissoluto. Ma non c’è niente di comune in questo perché le pagine di Richler sono talmente impregnate di voglia di esserci, d’ironia, di sapienza esistenziale, da risultare indimenticabili. Il film non ce la fa a tenere il passo delle parole. Non arranca, no. Non devia in modo grossolano, no. Non tradisce nel cercare il bandolo di una matassa. Che però sfugge, incredibile. Ecco la ragione del “si può vedere”.

La delusione può essere tanto o poco in relazione al tipo di amore che si provato per il romanzo. In parte il difficile equilibrio della trasposizione sta nell’occhio del regista, Richard J. Lewis, a cui non mancano le esperienze importanti in carriera. Può vantare infatti lavori televisivi per la Cbs di Toronto e soprattutto la realizzazione della ben nota serie anche in Italia “Csi-Crime scene investigation”, per la quale ha scritto anche le sceneggiature.

Guai ad avere prevenzioni con chi ha salito le scale nelle produzioni tv. Guai a considerare un regista specializzato per il piccolo schermo tentare le impervie vette (?) del cinema. Eppure, attenzione, gli occhi delle telecamere possono essere assai diversi da quelli delle cinepresi: più disincantati, più diretti a creare atmosfere in ambienti chiusi, meno propensi a giostrare con le luci per dare profondità alle situazioni e alla sensibilità delle persone. Lewis è un bravo professionista, e si vede. Ma chissà cosa avrebbe fatto un suo collega più smaliziato nell’entrare nei labirinti di uno scrittore-trappola Richler, il quale dissemina le pagine di sottigliezze e di passaggi che non sempre risultano facili da cogliere in tutte le sfumature. Lewis, sempre da bravo uomo di professione, s’intende con gli attori, in particolare con il protagonista Paul Giamatti; c’è nel cast anche il vecchio e caro ex laureato Dustin Hoffman. Ma costui provoca soprattutto nostalgia per le sue straordinarie interpretazioni in “Un uomo da marciapiede” o in “Piccolo grande uomo”.

Li ricordate? Era un cinema che gridava vita e vivacità anche se le storie erano dolorose. Come sembrano ora lontani quei tempi, eppure è trascorso solo qualche decennio. Gli anni e non solo i decenni contano nel cinema. I viali del tramonto e della dimenticanza sono lì pronti con i loro carri funebri che fiori già appassiti. Gli spettatori sono cambiati e hanno, per fortuna, le loro idee. Il “si può vedere” va inteso come un timido mettere le mani avanti.

Di regola, io le mani non me le lavo e cerco di dire a chi legge se è utile andare o no. E dico: è utile. Pronto a meritarmi qualsiasi cosa alla prova dello schermo. Ovvero: meglio una serata per vedere “Barney’s Version” piuttosto che “X Factor” o fiction senza vergogna e molti peccati.

Idem, come consiglio, per il film di Monte Hellman “Road to Nowhere”. In genere i vecchi maestri illustri che hanno lavorato con Jack Nicholson e sono andati in giro per il mondo per rubare e ambientare le loro storie, m’inteneriscono. Poca tenerezza invece per Hellman, leggenda personificata, cara ai cinefili, che si infila, e ci infila, in un gioco delle parti pirandelliano, tra realtà e finzione, tra delitto e cinema. Si parte da un soggetto per un film giallo ma il giallo si svolge nella troupe nel corso delle riprese. Il “si può vedere” è un gesto di rispetto. E poi è giusto rischiare un po’ tutti, no?

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