C’era una volta il mercoledì al cinema con soli 2 euro
Perché, fino a prova contraria, l’iniziativa del biglietto a 2 euro un mercoledì al mese non soltanto non risolve alcunché ma addirittura danneggia
Necessaria puntualizzazione della Teodora Film in merito alla questione del «cinema a 2 euro il mercoledì». Nell’articolo pubblicato sul sito del distributore, intitolato «Rosso Franceschini», c’è un punto in cui si allude alla presunta «educazione» e «promozione» del cinema mediante iniziative del genere: solo una mentalità minorata e/o in mala fede può prendere sul serio l’idea che l’abbassamento dei prezzi un giorno a caso del mese possa offrire il benché minimo contributo in tal senso.
L’autore dell’articolo a ragion veduta tira in ballo altri contesti, come scuola e televisione, tirando le orecchie a coloro che, pur potendo (e dovendo), non si sognano minimamente di ingegnarsi soluzioni più strutturate per far fronte al sempre più serio e invalidante analfabetismo visuale del quale soffre il nostro Paese e dinanzi al quale il suo sistema educativo si mostra ogni giorno vieppiù inadatto.
C’è poi l’aspetto economico, a conti fatti centrale, oltre che il più frainteso. L’affluenza in quei giorni in cui il biglietto costa 2 euro non fa bene a nessuno: non agli esercenti, non alle case di distribuzione (finanche La La Land pare c’abbia rimesso, mica il film d’essai che guardano le beghine al primo spettacolo del pomeriggio prima di prendere il tè), e nemmeno agli spettatori.
Al di là delle tristi ancorché significative logiche commerciali, c’è quel concetto spiccatamente economico, di marketing, che sega le gambe ad “intuizioni” di questo tipo, ossia la cosiddetta fidelizzazione, che con ottimismo e parecchio liberamente traduco in “sana abitudine”. Cioè a dire: quanti di questi che sperimentano la sala una tantum per via del prezzo ridotto avranno voglia di tornare magari anche solo la settimana successiva, quando per entrare dovranno sborsare non meno di sette euro?
La risposta a tale domanda è per certi versi cruciale, poiché da qui si valuta l’entità della proposta. Implicazioni, ben inteso, che hanno un senso qualora a chi si fa portavoce di siffatta iniziativa stesse a cuore il cinema, dunque l’opportunità di incentivare il ricorso alla sala proprio in relazione al pubblico. Peggio ancora: pensiamo ai film di maggiore attrattiva, quale può essere un film che ha appena vinto l’Oscar o il Checco Zalone di turno. Qui da noi ci si relaziona ad opere di questo tipo come a dei veri e propri eventi, per cui vale la pena spendere quei dieci euro (euro più euro meno) per assistervi, non tanto per affezione alla sala quanto per adeguarsi (finché dura) ad una sorta di rito collettivo.
La possibilità di pagare solo due euro per una proiezione alla quale si avrebbe assistito comunque, in termini puramente matematici, non significa concentrare quello che si guadagnerebbe nel corso, toh, di una sola settimana in un solo giorno, quand’anche ciò fosse possibile, bensì compromettere il potenziale incasso che avrebbe generato la regolare programmazione. Infatti, anche laddove fosse maggiore l’affluenza e si riuscisse a convocare in sala molti tra coloro che diversamente non ci metterebbero piede manco sotto minaccia, il guadagno resta comunque inferiore, e temo neanche di poco.
Badate bene, peraltro, che incentivare ed educare sono due termini ben diversi, tra i quali passa tutta la differenza del mondo: è legittimo che ogni governo democratico si prefigga gli obiettivi che gli sono più congeniali: per eredità politica, ideologica, finanche per convenienza, ci sta. Il tutto però deve rimanere nell’alveo della proposta, non dell’imposizione.
Ecco, attraverso l’imposizione si educa, attraverso la proposta s’incentiva. Quando l’autore dell’articolo fa notare che «la legge e i decreti attuativi impongono ai privati una gabella che nemmeno il principe Giovanni in assenza di Riccardo Cuor di Leone alle crociate», si tratta di un’ingerenza dannosa, che non serve a regolare alcunché; se non appunto ad educare nella più “nobile” delle ipotesi. Educare a cosa poi? Alla già diffusa percezione del cinema come qualcosa che vale poco o nulla?
In verità però potrebbe anche starci un altro ragionamento, sempre espresso dalla Teodora Film, per cui «Ci pare ovvio che il ministro della cultura usi questo mezzo come forma di propaganda personale, di populismo. E il populismo, è tautologico, serve ai politici per rendersi popolari». Insomma, il buon vecchio cui prodest ancora una volta rischia di metterci sulla buona strada al fine di decodificare il senso di un’iniziativa quantomeno discutibile ma su cui fino ad ora pare non esserci stata discussione alcuna.
Ed ancora una volta la classe politica nostrana si segnala per uno scoraggiante disinteresse, oltre che per l’inadeguatezza alle sfide dell’epoca, anche in un campo secondario com’è quello del cinema rispetto a settori primari. Non paga di elargire fondi dello Stato per opere il più delle volte risibili (di cui, per carità, c’è bisogno pure, purché non costituiscano l’unica voce: la ricchezza sta nella varietà), mediante logiche e percorsi non sempre abbastanza chiari; ebbene questa stessa classe politica, una volta acquisiti la posizione e dunque gli strumenti per poterlo fare, affossa ulteriormente «un settore già in profonda crisi» mettendo a repentaglio pure la sopravvivenza di quei privati (siano essi proprietari di sale, distributori, uffici stampa e via discorrendo) che a conti fatti tentano di tenere a galla la zattera.
Sì, cercando di fare impresa, dunque profitto, ovvio. D’altra parte non mi pare che i più rinomati multisala facciano diversamente, anzi. Un provvedimento di questo tipo, se “aiuta” qualcuno, consapevolmente o meno, sono loro: mi sembra di magnificare lo splendore dell’acqua calda nell’evidenziare ciò che è chiaro a tanti e da tanto, ossia che gli incassi più consistenti dei multisala non provengono dai biglietti bensì da bibite, pop corn, caramelle et cetera, così come le tabaccherie non guadagnano con la vendita delle sigarette ma dei gratta e perd… vinci. Ma tant’è.
In un periodo di ritrovato pauperismo, eresia che ciclicamente ritorna ad insidiare il buon senso, è comprensibile che l’idea di far pagare meno qualcosa di non indispensabile, non vitale, sia un bene. Se non fosse che questa è pure l’epoca del libero mercato, lo stesso che, se da una parte consente ai “forti” di praticare prezzi che i “deboli” si sognano, dall’altra non è riuscito ad oscurare del tutto quell’antico principio, che ha a che vedere con la psiche quanto si vuole ma nondimeno resta valido, per cui le cose belle, che durano, per quanto apparentemente inutili, si pagano e pure profumatamente.
Nel caso di specie la bellezza non sta nel singolo prodotto, che può benissimo essere (e non di rado è) “brutto”, bensì è intrinseca al mezzo d’espressione; anche in considerazione del fatto che promuovere una cultura che valorizzi il Bello non è affare per soli esteti, avendo al contrario ripercussioni anche sul mercato del lavoro, per via di una serie di dinamiche che una valorizzazione del genere tende ad innescare. Non per niente anche il più modesto dei pittori del ‘500 aveva di che campare, mentre il traffico delle copie era oltremodo fiorente e redditizio. Si apprezzava l’Arte, la si riteneva necessaria, quantunque l’asepsi non si sapeva nemmeno cosa fosse in quel cantiere a cielo aperto che era la Roma di allora e la vita non era affatto una passeggiata. Mica come oggi.