10 anni senza Stanley Kubrick
Chi ha parlato? Chi cazzo ha parlato? Chi è quel lurido stronzo comunista checca pompinaro che ha firmato la sua condanna a morte? Ah, non è nessuno eh? Sarà stata la fatina buona del cazzo! Stanley Kubrick moriva dieci anni fa nella sua casa di campagna all’età di 70’anni. La stampa e la rete giustamente
Chi ha parlato? Chi cazzo ha parlato? Chi è quel lurido stronzo comunista checca pompinaro che ha firmato la sua condanna a morte? Ah, non è nessuno eh? Sarà stata la fatina buona del cazzo!
Stanley Kubrick moriva dieci anni fa nella sua casa di campagna all’età di 70’anni. La stampa e la rete giustamente lo ricordano: lui, regista per eccellenza, oggetto infinito di studio, di dibattito, di letture, interpretazioni ed opinioni. Un regista freddo, un regista da amare ad ogni costo, un regista senza eredi: le definizioni si sprecano. E in molti ricordano anche il progetto incompiuto del Napoleon, in “risposta” al film-fiume di Gance.
Non c’è corso di cinema, libro sugli audiovisivi, sulla regia, sulla sceneggiatura che non analizzi abbondantemente qualche suo film, qualche sequenza, qualche momento. Kubrick è il modello da studiare, un metro di paragone inarrivabile e alieno. Ma, senza voler essere provocatori, Kubrick è anche regista di emozioni. Un paradosso, un’assurdità: basti pensare alla perfezione maniacale della tecnica dei suoi film e alla (presunta) glacialità che le sue immagini regalano allo spettatore.
Ore ed ore spese a studiare la fotografia di un’inquadratura, ore spese a studiare la prospettiva, le posizioni degli attori. E una documentazione impressionante del campo artistico, come si vede facilmente in Barry Lyndon. Ma sotto l’inattaccabile e affascinante cura tecnica, sotto l’estetica più perfetta del perfetto, si nasconde sempre e comunque un’etica che, colta anche solo per un attimo e in minima parte, distrugge tutto e re-inventa il pensiero. C’è chi la chiama filosofia.
E va bene che può sembrare un discorso finto-intellettuale, perché dire oggi che ci si emoziona con le idee del regista e dei suoi film è così facile che pare quasi una posizione di difesa. Ma l’emozione nei film di Kubrick funziona in modo incredibile anche a primo impatto. Troppo facile citare Shining, certo. Ma come non provare brividi con una macchina che insegue quatta un’altra (Lolita), un “semplice” accostamento divino di musica e immagini in danza (2001: Odissea nello spazio), un viso terrorizzato ed agghiacciante che “comprende” sentendo canticchiare l’assassino della moglie in casa propria (Arancia Meccanica)?
Ma sono anche momenti delicati che incantano e toccano. Si prenda la scena in terrazzo tra Barry e Lady Lyndon, ad esempio. La trovava romantica anche Kubrick stesso. Che però, da pensatore qual era, non poteva non raccontare la scena così: “[la scena suggerisce anche] quell’attrazione vuota che sentono l’uno per l’altra e che scomparirà con la stessa rapidità. Prepara cioè il terreno a tutto quello che seguirà nel loro rapporto”. Eccolo qui: il pensiero kubrickiano sull’uomo, diviso tra amore e odio.
Anche Bertolucci lo notò: Barry Lyndon, proprio come altri film del regista, mette in risalto questa tematica. Che scoppierà totalmente nell’ultimo capolavoro di Kubrick, Eyes Wide Shut: all’uomo resta solo una cosa da fare il prima possibile. Scopare. Con questa parola si congeda Kubrick, uno dei più grandi autori e filosofi dell’età contemporanea: col senno di poi, non sembra proprio un caso.
Di 2001 diceva che ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, perché quella rappresenta un’opera che deve colpire l’emotività e l’inconscio. Alla faccia della freddezza meditata a tavolino. Zoom, grandangoli, pianisequenza, carrellatte, perfezione assoluta: mai come in questo caso l’estetica è il mezzo ideale per accompagnare la stessa perfezione del pensiero e del contenuto, di qualcosa che colpisce cuore, cervello, stomaco.
“Dopo averlo visto mi sono reso conto che è l’unico film su ciò che è veramente il mondo moderno”, diceva Buñuel del suo film preferito, Arancia Meccanica. E del significato del film Kubrick dichiarava che “l’uomo deve poter scegliere tra bene e male, anche se sceglie il male. Se gli viene tolta questa scelta egli non è più un uomo, ma un’arancia meccanica”. Siamo guariti? Alex risponderebbe “Eccome!”, guardando ogni volta i film di Kubrick abbiamo la terribile consapevolezza di poter rispondere senza alcun dubbio il contrario. E questa consapevolezza è emozione.
Non si parlerà di certo qui, dopo un discorso del genere, dell’importanza di Kubrick nella rilettura dei generi, di quanto Pulp Fiction non sarebbe stato quello che è senza Rapina a mano armata, di quanto Orizzonti di gloria e Full Metal Jacket, con la loro “poetica” della scacchiera e del labirinto (meravigliosamente spiegata da Alonge nel suo imprescindibile Cinema e guerra), siano modelli per eccellenza, o di quanto sia incredibile quel pamphlet de Il Dottor Stranamore.
Per ricordare Kubrick ho scelto personalmente di parlare del punto di vista meno affrontato per iniziare a leggere la filmografia del regista con un certo taglio. Che è paradossalmente il taglio più facile, ma anche quello su cui si sono create accese discussioni. Per tentare quindi di tirare le fila del discorso, vi propongo quella che per me è una delle sequenze più emozionanti della filmografia di Kubrick: perché colpisce in modo diretto, ma fa venire davvero la pelle d’oca col senno di poi. Proprio con il ragionamento necessario che bisogna fare con i suoi film.
Nessun sogno è mai solamente un sogno.