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Rogue One ed il futuro dell’immagine nell’era del fotorealismo

Lungi dal rappresentare un’assoluta novità, la ricostruzione di Peter Cushing rappresenta ad ogni modo uno dei motivi per cui Rogue One potrebbe inaugurare non solo una nuova stagione per la saga di Star Wars ma per un’intera epoca

pubblicato 17 Dicembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 03:13

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Rogue One ha oramai invaso le sale di tutto il mondo (eccetto Corea del Sud e Cina), perciò anche voi che ci leggete grossomodo vi sarete fatti un’idea, direttamente o per interposta persona. Ovviamente non è mancato il nostro contributo, che però si è dovuto limitare a quanto è opportuno trattare in una recensione, angusta per spazio e propositi. Ci pare perciò giunto il momento, a quarantott’ore circa dall’uscita nei nostri cinema, di fare il punto della situazione su una questione che per forza di cose sta già tenendo banco. Una questione che c’entra forse relativamente con Rogue One, ma che eppure il film di Gareth Edwards riporta prepotentemente alla nostra attenzione.

Da tempo si sapeva che, data la collocazione temporale di questa storia, il personaggio di Peter Crushing sarebbe stato ricostruito totalmente in computer grafica. Parliamo del celeberrimo capitano Tarkin di Guerre stellari, che in Rogue One torna in un ruolo nient’affatto di secondo piano. Il punto è che l’attore in questione non è più tra noi dal 1994, il che imponeva delle soluzione alternative, ciascuna delle quali comportava un qualche compromesso. In realtà non pare che la decisione sia mai stata in bilico e l’idea di ricorrere alla tecnologia in maniera così invasiva ha prevalso senza troppi patemi. Tuttavia le implicazioni sull’industria tutta sono significative, perché da qui in avanti si ha l’impressione che continuare a glissare sull’argomento non sarà più possibile.

Difatti il ricorso alla CGI non è certo affare recente ed in svariate occasioni la questione si è affacciata stimolando a svariate intensità il dibattito. Quando per esempio uscì Final Fantasy: The Spirits Within si fu tentati subito d’immaginare un futuro non proprio lontano nell’ambito del quale addirittura non ci sarebbe stato posto per gli attori. Un’esagerazione dovuta più che altro alla complessità dei modelli, all’avanzamento acquisito in termini di fotorealismo, sebbene i personaggi del film già all’epoca davano l’idea di gusci vuoti. Ciò malgrado il titolo del film, che, al di là dei limiti se valutata come opera cinematografica, fornisce un ventaglio di spunti notevoli ai fini del ragionamento che stiamo qui approntando: la trama di Final Fantasy è incentrata su concetti come «contatto» e «anima», sebbene in chiave orientale, quindi per lo più slegata dalla materialità. Non a caso chi ha visto il film ricorderà che gli esseri umani non devono venire a contatto con i Phantom, entità eteree che si scoprirà essere le anime di creature aliene, pena il distacco della propria anima dal corpo. Un film perciò che anela, in maniera incidentale e forse pure involontaria, ad infondere in quei pupazzi digitali un’anima che in realtà non hanno né possono avere, né danno l’idea di averla.

Esempio più recente è quello relativo a Il grande gigante gentile di Spielberg, in cui il volto umanissimo e caloroso del personaggio di Mark Rylance è tutto, nonostante il volto dell’attore sia stato totalmente ricreato a computer ed il suo corpo deformato per esigenze narrative. È interessante, oppure inquietante, a seconda delle prospettive, che in un film per lo più in live-action il personaggio che fa la differenza sia quello che reale non è, per quanto riconducibile ad una persona in carne ed ossa. Questo la dice lunga sul progresso compiuto negli ultimi anni, apparentemente esponenziale e che ci avvicina sempre di più al discorso su cui ci vogliamo soffermare. Per spostarci definitivamente in quella zona lì necessitiamo di un ultimo esempio, che consiste in The Congress di Ari Folman.

Qui Robin Wright decide di vendere la propria immagine digitale ad una major, la quale non solo può fare di quel modello ciò che le pare, bensì obbliga l’attrice ad abbandonare la recitazione: da quel momento non potrà più prender parte ad alcun film. Anche in questo caso, i giudizi di merito contano poco: quel che c’interessa è proprio l’incipit, l’idea che un attore venda la propria immagine. Alla base c’è un consenso, viziato quanto si vuole, ma c’è; solo che l’idea dà adito a tutta una serie di considerazioni che spaziano dalle implicazioni giuridiche a quelle morali.

Eccoci allora al punto, quello in cui ci chiediamo se ed in che misura sia opportuno resuscitare una persona deceduta per esigenze di spettacolo. La LucasFilm, come chiarito da Variety, ha preventivamente preso tutte le misure necessarie prima di ricreare Cushing a computer, chiedendo il permesso a coloro che oggi detengono i diritti all’immagine dell’attore, permesso evidentemente accordato. Tuttavia la giurisprudenza dovrebbe intervenire in un secondo momento, regolando una fattispecie su cui ci si è debitamente informati, su cui si è dibattuto, non prima, diversamente si approderebbe alla non desiderabile deriva per cui le leggi non si limitano più a regolare realtà umane e/o collettive bensì a contribuire alla loro formazione, il che rappresenta un indebito sconfinamento.

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In questo caso, più che a un giurista, sarebbe bene per esempio prestare ascolto all’ex-segretaria di Peter Cushing, Joyce Broughton, che intervenuta alla prima di Rogue One a Londra, e successivamente intervistata, ha manifestato con queste parole il proprio diplomatico disappunto: «Quando stai accanto a qualcuno per trentacinque anni, cosa ti aspetti? Non posso dire altro perché la cosa m’infastidisce parecchio. Lui (Cushing) era un uomo bellissimo. Aveva un suo modo di vivere, molto privato». Sono parole di chi evidentemente amava Cushing, sebbene siano di parte, non tanto perché gli voleva bene, quanto perché la Broughton era nella posizione di vedere l’uomo al di là dell’attore. Eppure non andrebbero cassate in maniera così sbrigativa le ragioni alla base di quest’uscita così poco british proprio perché sincera, profonda.

Viviamo in un mondo in cui l’immagine di ciascuno di noi è alla mercé di chiunque, con o senza il nostro beneplacito, e sebbene esista ancora un diritto che ne tuteli l’integrità, l’avanzamento tecnologico pone dei quesiti fondamentali, che rappresentano le prossime sfide (difficile non citare il primo episodio della seconda serie di Black Mirror, Torna da me, in cui un uomo, interpretato da Domhnall Gleeson, viene materialmente ricostruito grazie ai dati reperiti nel suo account social). In un anno contrassegnato dai lutti illustri, a parte David Bowie e Prince, emblemi di personaggi fortemente ancorati alla loro immagine, quantunque cangiante, supponete di ritrovarvi Gene Wilder, Anton Yelchin o Alan Rickman non soltanto in un film ma in una pubblicità di cibo per cani, perché a quel punto «sky’s the limit». Ma il discorso riguarda un po’ tutti, come in parte accennato: non più obbligati dalle qualità del diretto interessato o della diretta interessata, Hollywood o chi per lei potrebbe decidere di comprare il volto di una persona morta e farle fare la qualsiasi.

In tal senso ci viene incontro quanto Andrew Niccol ebbe modo di mostrarci nel suo S1m0ne, film del 2002 che all’epoca ci si poteva ancora concedere il lusso di considerare fantascienza. Lì Viktor Taransky, interpretato da Al Pacino, crea da zero Simone, ma non si tratta solo di conferirle dei connotati. Il regista si preoccupa anche di dare vita ad una grande attrice, ed allora eccolo ripescare peculiarità di attrici passate: movimenti impercettibili delle labbra, espressioni, atteggiamenti, tic. In altre parole, l’attrice perfetta. Ma siamo sicuri che anche questa non sia una lesione all’immagine? Voglio dire, elementi, singolarità e finanche imperfezioni che hanno reso grandi certi attori, non è giusto che rimangano loro e loro soltanto, a prescindere dal fatto che certi risultati siano espressione di un dono o frutto di duro lavoro?

Utilizzare a questo punto potrebbe avere lo stesso significato di rubare. Rubare la cosa più sacra, ossia l’anima, che non è un po’ d’aria informe e priva di senso bensì soprattutto un volto con dei lineamenti ben precisi, a corredo delle migliaia di sfumature diverse che lo rendono vivo. Nessuna tecnofobia, ma a questo punto è bene che se ne discuta, che si ragioni sulle conseguenze che ha il ricorso vieppiù invasivo della tecnica su un’Arte che sta mutando in maniera vertiginosa e che pare peraltro andare verso un’altra direzione, una sorta di realismo alla YouTube. Diffidando da chi presenta ogni cosa con un fatalismo da quattro soldi, poiché non c’è argomento che non vada messo in discussione. La tecnica qui è quel mezzo di cui ci si potrebbe servire per alienare il cosiddetto fattore umano: immaginate quale e quanta libertà per un regista, che non deve più avere confrontarsi con i capricci e le idiosincrasie della star di turno, così come semplicemente con le fragilità di un qualunque attore. E alla lunga costerebbe pure di meno, giusto il tempo che tale avanzamento si perfezioni e diventi più alla portata.

Viene subito da chiedersi cosa avrebbero fatto cineasti come Hitchcock e Kubrick a fronte di un’opportunità del genere; il primo già convinto che il film fosse pronto una volta scritto, l’altro che invece traeva linfa vitale dalle impercettibili variazioni delle decine e decine di ciak che girava. Sì perché il processo vive anche di questo, ossia di eventi fortuiti, impedimenti che solo a posteriori si possono considerare giovamenti. Il gelo di pixel e poligoni azzera tutto ciò e se il fotorealismo sta profondamente cambiando il nostro modo di percepire il Videogioco, il Cinema rischia di venirne travolto. A meno che non si abbandoni quella sterile consapevolezza che mena all’inevitabile e quantomeno si tenti di riprendere il controllo; l’impressione è che anche qui sarà il fattore umano a fare la differenza.

Ma se nel recente passato vi sono già esempi che contribuiscono al discorso, perché alzare questo polverone ora, con Rogue One? Come ho avuto modo di scrivere nella recensione, il film di Edwards inaugura un nuovo modo d’intendere Star Wars, un’operazione ben più rilevante di qualunque nuova Trilogia sia possibile sperimentare. Già dal titolo si prendono le distanze, relegando le vicenda narrata nel film al rango di storia, forse addirittura una leggenda, qualcosa che insomma può essere accaduto oppure no, o magari è accaduta ma non in maniera diversa, come si confà alle vere mitologie (l’assenza degli iconici titoli di testa sono piuttosto eloquenti in tal senso). Ebbene, chi ci dice che un giorno, guardando indietro, qualcuno con i crediti per farlo non sarà in grado di motivare il perché l’uscita di Rogue One coincida con l’inizio di una nuova epoca, una che ancora non conosciamo sebbene ci troviamo immersi in essa? In analogo a come secondo Jameson il postmodernismo ha inizio nel 1977, con Guerre Stellari. Meno le spade le laser.