Science+Fiction: secondo giorno
Se è ormai assodato che il cinema cita, ricita, trita, omaggia, copia, remakizza, in un circolo vizioso che a volte offre buoni frutti e a volte lascia come sensazione quella del “già visto e già detto tutto”, il Science+Fiction finora ha fatto vedere opere interessanti che si rifanno platealmente, per stile e concetti, a capisaldi
Se è ormai assodato che il cinema cita, ricita, trita, omaggia, copia, remakizza, in un circolo vizioso che a volte offre buoni frutti e a volte lascia come sensazione quella del “già visto e già detto tutto”, il Science+Fiction finora ha fatto vedere opere interessanti che si rifanno platealmente, per stile e concetti, a capisaldi e film culto del genere.
E’ successo il primo giorno con Vexille e con Chrysalis, ed è successo anche ieri con The 4th Dimension, pellicola indipentente (il budget è stimato 75000 dollari) scritto e diretto a quattro mani dagli esordienti americani Tom Mattera e Dave Mazzoni.
La quarta dimensione, come sappiamo, è quella del tempo. Il protagonista Jack Emitni è ossessionato dallo studio e dalla matematica, e vive chiuso in uno stanzino nella sua bottega d’antiquariato. Un giorno una donna gli dà il suo antichissimo orologio da riparare, e da lì inizia per l’uomo un viaggio dentro di sé, un ritorno alle origini per districare una matassa che l’ha imprigionato per anni.
Diretto in Super-16 con un claustrofobico e sgranato bianco e nero, il film tiene bene la sensazione di angoscia che vuole regalare. Forse la prima parte è più compatta, mentre dalla seconda sono evidenti i riferimenti a film come Eraserhead e Pi. La soluzione della matassa nel finale, girato volutamente a colori, non tiene testa a tutto ciò che è stato fatto prima. Anche se qualcuno potrebbe gradire, Spider aveva già detto tutto.
Dopo un primo film in concorso, passiamo ad una proiezione speciale: quella di In the Shadow of the Moon, documentario prodotto da Ron Howard sulle missioni Apollo dal 1968 al 1972. Il film, diretto dall’inglese David Sington, ha vinto fra gli altri il Premio del pubblico al Sundance: sicuramente ci sarà dietro una facile propaganda, e il pubblico americano ne sarà probabilmente felice, ma il documentario è bello.
Bello perché presenta immagini inedite, bellissime, emozionanti ed incredibili. Bello perché presenta interviste con quelli che sulla Luna (o attorno al satellite, a seconda dei casi e delle missioni) ci sono stati, anche se manca Neil Armstrong, che non concede ormai da dieci anni alcuna dichiarazione. Ognuno di questi arzilli e coraggiosi vecchietti racconta la propria esperienza, ricorda le emozioni, filtrate dalle proprie idee, condivisibili o meno, sul proprio Paese e sull’epoca. Il documentario poi ha anche una chicca sul finale: un avvertimento da parte di uno degli ex-astronauti a non pensare che sulla Luna l’uomo non ci sia mai stato. Anche perché nessuno potrà togliere loro quell’esperienza unica. Il film è, in definitiva, godibile e interessante per tutta la sua durata, e gli appassionati gradiranno molto.
Del film sorpresa ne parlerò tra poco in un post singolo, soprattutto perché il film è davvero una sorpresa. In tutti i sensi. Capirete presto perché. Intanto posso solo dirvi che siamo usciti dalla sala tutti increduli, allibiti, con mille domande in testa, e anche oggi se ne parla e tutti cercano risposte…
L’ultimo film (ri)visto è Gwoemul, ovvero The Host di Bong Joon-ho, che immagino molti di voi avranno già visto, studiato e apprezzato. La sua visione in sala è uno spettacolo. Si ride, si salta sulla sedia, ci si diverte e ci si emoziona. Che dire ancora di questo primo posto agli Asian Film Awards che non è già stato detto? Nulla. Basta solo sapere che è grande quanto il mostrone marino che esce dalle acque del fiume Han.
La proiezione di The Host ha sostituito quella di Perfect Creature di Glenn Standring, film che per problemi non dovuti all’organizzazione del festival non si vedrà.