Venezia 64: decimo giorno di Gabriele
Ultimi film in concorso, in attesa del verdetto (quando daranno i premi sarò probabilmente in treno, wow). Ecco chi potrebbe seriamente essere candidato per il premio come miglior regia: Peter Greenaway per il suo Nightwatching. Che finalmente farà mangiare un boccone amaro ai suoi detrattori (anche se Mereghetti lo stronca anche stavolta), che avevano tutti
Ultimi film in concorso, in attesa del verdetto (quando daranno i premi sarò probabilmente in treno, wow). Ecco chi potrebbe seriamente essere candidato per il premio come miglior regia: Peter Greenaway per il suo Nightwatching. Che finalmente farà mangiare un boccone amaro ai suoi detrattori (anche se Mereghetti lo stronca anche stavolta), che avevano tutti i motivi per denigrarlo con gli ultimi due film, tornando allo stile del suo primo periodo. Niente più picture in picture e scritte su immagine, niente più astrusità che in qualche caso funzionano (I racconti del cuscino) e in qualche altro lasciano un trauma (Le valigie di Tulse Luper).
Il regista-pittore-scrittore narra le vicende che girano attorno al quadro La ronda di notte e al suo pittore, Rembrandt, mescolando teatro, pittura e persino l’aria da thriller che aveva caratterizzato il suo primo lungometraggio (I misteri del giardino di Compton House). Pretenzioso? Probabilmente, come al solito con Greenaway: ma l’occhio è soddisfatto ogni secondo del film, e la trama si segue che è un piacere. Al solito bellissime le musiche, e c’è una scena che fa venire i brividi (i dettagli nascosti nel quadro…). Ed è normale che ci sia anche una riflessione sulla pittura e sull’arte, sull’artista stesso e anche sul cinema. Bentornato tra noi Peter.
Terzo film italiano in concorso, terza delusione. Ma se con Franchi si parla di un film da bocciare e via, qui la delusione è ancora più cocente, perchè il regista è il bravo Vincenzo Marra, autore di due documentari e due film (l’ultimo era il riuscito Vento di terra). L’ora di punta fa parte della trilogia degli elementi naturali iniziata con Tornando a casa e Vento di terra, che rappresentano acqua e terra, mentre questo è il fuoco: quello della bramosia e della voglia di passare sopra a chiunque per ottenere ciò che si vuole. Michele Lastella sembra il Dracula di Badham e la Ardant ha un personaggio improponibile, ma di certo la sceneggiatura (scontata, lineare e scritta male) non aiuta. Ciò che fa rabbia è proprio la regia, che si limita a rifare una fiction: e invece Marra aveva uno sguardo documentaristico sincero ed interessante, che qui compare in due sequenze in cui s’inquadrano degli edifici. Forse è un po’ poco. Pesantissimo e a tratti imbarazzante, ha una sequenza bruttissima: il cattivissimo protagonista osserva la foto del padre, va via e chiude la porta, e la m.d.p. inquadra un crocifisso appeso… per la serie: Dio vede e provvede.
Altro film in concorso è quello del più grandi regista egiziano di sempre, ossia Youssef Chahine. Heya fawda (Chaos) è una commedia divertente, con alcune gag impagabili, un bel ritmo e una bella messa in scena; tra l’altro, quando i protagonisti vanno in macchina, come nei bei tempi che furono si vedono chiaramente i fondali finti (ma è un effetto volutissimo). Storie di amori e gelosia, un poliziotto assurdo e comico che per rabbia si sfoga sui poveri prigioneri torturandoli nella cantina della stazione di polizia, ma il tutto si perde clamorosamente nel finale, che vira verso il tragico assoluto: perchè non continuare sulla strada della commedia e per forza voler buttare la pellicola nel tragico, con un esito stonato? Forse Chahine voleva continuare il suo discorso sul cinema con un altro mix di generi, ma Il destino alla fine è lontano. Ma i critici hanno molto gradito.
Ultimo film in competizione: 12 di Nikita Mikhalkov, remake de La parola di giurati di Lumet. Visto l’ultimo Il barbiere di Siberia, e vista la durata del film (150 minuti abbondanti contro i poco più di 90 del bellissimo originale), temevo il peggio: e invece sorprendentemente questo 12 non è male. Certo, si poteva tagliare e la visione ne avrebbe guadagnato, ma Mikhalkov (che interpreta anche uno dei dodici “uomini arrabbiati”) prosegue il discorso liberale di Lumet, trasferendo la situazione dell’omicidio in terra russa, ovviamente, con la guerra in Cecenia come terribile ombra. Girato in pochissimo tempo, dopo che il regista si è visto sospendere le riprese del sequel di Sole ingannatore, ha un buon ritmo ed è recitato benissimo, con alcune piccole stonature. Ed ha dei momenti decisamente buoni e godibili, conditi anche da un umorismo riuscito. C’è chi lo candida anche come papabile Leone d’Oro (un’esagerazione, comunque).
Delude Cristovao Colombo – O Enigma, il nuovo film del vecchio buon Manoel de Oliveira (che ha ormai 98 anni e continua a fare film: impressionante e lodevole), anche l’altr’anno fuori concorso, con il delizioso Belle Toujours. Qui parte da un fatto molto semplice: Colombo non era genovese ma portoghese. Se all’inizio ci si trova di fronte al solito raffinato de Oliveira, anche se la miscela di finzione e documentario ha un che di didascalico, nella parte finale (interpretata dallo stesso regista assieme alla moglie) non si può non restare imbarazzati: sembra che la coppia non si ricordi le battute da dire, recitano così, lasciano freddi silenzi. E la “presenza metafisica” della donna che incarna il Portogallo è una delle metafore più inutili viste ultimamente.
Jonathan Demme invece col suo nuovo documentario, per la sezione Orizzonti Doc, dimostra ancora una volta di saperci fare benissimo nel campo documentaristico: il suo Man from Plains è un buon film. Non è un film solo su Jimmy Carter come si può pensare sin da subito, anche se ne appoggia le tesi e “tifa” per lui, ma è anche un interessante sguardo alle diverse opinioni e alla confusione riguardo la drammatica situazione tra Israele e Palestina (tema che ritorna dopo il “disimpegno” di Gitai). Partendo dallo “scandaloso” saggio scritto dal 39esimo Presidente degli USA e Premio Nobel per la pace nel 2002, intitolato provocatoriamente Palestine: Peace No Apartheid, Demme segue il percorso di Carter per la promozione del suo libro, un atto d’accusa nei confronti del controllo in Medio Oriente di Israele, tra interviste e confronti vari, fra insulti e botta e risposta. C’è comunque anche lo spazio per chi non è d’accordo con le tesi di Carter… Comunque girato al solito molto bene, interessante e divertente.
Poche parole invece per Callas Assoluta: non vale troppo la pena sprecare inutili parole per una delle clamorose bufale di Venezia 64, scandalosamente applaudita a fine proiezione. Il film di Philippe Kohly, inserito all’ultimo momento in programma assieme al film di Gitai, è nella sezione Orizzonti Doc per pura fortuna: altra spiegazione non c’è. E’ un tipico ritratto di un personaggio famoso da mandare in onda in seconda serata direttamente su Rete 4, con l’aggravante che è pure fatto discretamente male, a tratti simile ad una tesina del Dams e con dei momenti da omicidio (quei vestiti con dietro i finti fondali…). E la parte documetaristica? Si poteva raccontare decisamente di più ed andare più a fondo: Maria Callas si meritava molto, ma molto di meglio.
Domani: post di riassunto di questa Venezia 64 col meglio, il peggio e i voti ai film. E ovviamente oggi le premiazioni.