Venezia 64: nono giorno di Gabriele
Continuerò a difendere il cinema spagnolo, che non è solo Almodovar ma ha autori bravissimi e qui anche poco sconosciuti. Detto questo, En la ciudad de Sylvia di José Luis Guerin, in concorso, è una delle mie più grandi delusioni di questa Venezia 64. Guerin è un raffinato documentarista e sperimentatore, e se si guarda
Continuerò a difendere il cinema spagnolo, che non è solo Almodovar ma ha autori bravissimi e qui anche poco sconosciuti. Detto questo, En la ciudad de Sylvia di José Luis Guerin, in concorso, è una delle mie più grandi delusioni di questa Venezia 64. Guerin è un raffinato documentarista e sperimentatore, e se si guarda Tren de sombras (80 minuti muti) si capisce la poetica del nostro regista. In questo film di fiction, il regista spagnolo sceglie di usare la sua capacità visiva per far entrare lo spettatore nella storia di un giovane ragazzo alla ricerca di una ragazza di nome Sylvia conosciuta cinque anni prima e di cui ha solo poche informazioni. Inizia nel peggiore dei modi: minuti e minuti ad inquadrare il protagonista immobile, seduto sul letto. Aiuto.
Però, detto sinceramente, si riprende nella scena seguente, al bar, dove il ragazzo osserva la gente e soprattutto le ragazze, disegnandone i volti sul block notes. Ma ben presto si capisce dove Guerin voglia andare a parare: vuole usare pochissimi dialoghi, vuole inquadrare come sa fare lui la città, vuole inseguire un idealo romantico. Eppure il ritmo catatonico che ad un certo punto diventa puro manierismo (vuoto!) lascia spazio al pensiero che l’idea alla base del film andasse bene forse al massimo per un mediometraggio. Lo dico col cuore in mano, e vorrei salvarlo solo per aver usato in colonna sonora Heart of glass dei Blondie e Voyage Voyage. Nota per il pubblico femminile e quello queer: attenzione al protagonista Xavier Lafitte…
Un’altra piccola delusione, ma meno cocente di quella precedente, è il nuovo film di Im Kwon Taek, fra l’altro il suo centesimo film (e tanti altri gliene auguriamo!). Sequel di Seopyonje (che non ho visto e devo recuperare subito), questo Chun-nyun-hack (Beyond the Years) si occupa ancora una volta di un qualcosa d’artistico riguardante la cultura tradizionale, e nello specifico del Pansori, la canzone coreana. Al solito non mancano poesia e raffinatezza, eleganza e momenti bellissimi, e il finale colpisce al cuore. Ma la lentezza del ritmo rischia di lasciare troppo tempo all’occhio per restare affascinato da immagine e suono, e lo spettatore rischia di annoiarsi. Anche perchè il film intero, secondo il mio modesto parere, viene mangiato da una sola sequenza di Ebbro di donne e di pittura: quella della mancata inseminazione, straziante e dolorosa condanna del protagonista. Gli appassionati comunque gradiranno, anche perchè non è assolutamente un brutto film, mentre chi non sopporta il cinema orientale sa che può andare a mangiarsi un buon gelato.
E arriviamo al film della categoria Orizzonti di oggi: il documentario Il passaggio della linea dell’italiano Pietro Marcello. Partendo dalla storia del vecchio Arturo, che vive viaggiando sui treni tutti i giorni, il regista percorre gran parte dell’Italia, filmando viaggi, treni, stazioni e facendo qualche intervista a qualche passeggero. L’intento del film è quello di dipingere in breve un po’ l’Italia e di raccogliere vari pensieri di una umanità eterogenea. Ma in 60 minuti di cui solo un quarto saranno d’interviste e i rimanenti sono inquadrature di stazioni…! In definitiva abbastanza inutile, ma per ricordare quanto sia utile per i giovani d’oggi iniziare, per entrare nel mondo del cinema, a fare gavetta magari proprio con un documentario, considero di recuperare Estranei alla massa di Marra (di cui domani vedrò il suo L’ora di punta), buon esordio da confrontare magari proprio con questo Il passaggio della linea, per vedere le differenze di qualità.
Nella sezione Giornate degli autori troviamo il tedesco Freischwimmer, un ibrido tra commedia, dramma e follia. In ogni caso, un grosso pasticcio. Partendo dalla morte di uno studente campione di nuoto, avvelenato con un bignè, il regista Andreas Kleinert segue soprattutto la storia di un giovane studente sordo innamorato della bella stronzetta di turno. Inizia appunto come una commedia, si toccano punti drammatici, ma il tutto resta piattino e noiosetto fino alla svolta grottesca e simil-thriller, con tanto di colpo di scena finale. Cerca di graffiare, ma non vale senza alcun dubbio Schegge di follia (da cui ruba qualcosina). Due scene che fuori contesto possono colpire e qualche volto interessante, ma davvero nulla di più. Una confusione in cui si possono trovare un professore che crea manichini ispirati ai suoi studenti e un povero cerbiatto che capita dappertutto a caso: dove si voleva andare a parare? Incredibile.
Si finisce con l’ultimo film visto oggi, Disengagement (da noi Disimpegno) di Amos Gitai, che ritorna a narrare le vicende politiche del suo paese, Israele. E lo fa partendo da una donna nata in Israele ma residente in Francia: la morte del padre la costringe a ritornare, assieme al fratellastro Uli, nel suo paese d’origine per ritrovare la figlia abbandonata subito dopo il parto vent’anni prima. Il fine di Gitai è quello di mostrare ciò che successe subito dopo la decisione del governo Sharon, nel 2005, nella striscia di Gaza: e per dare ovviamente più impatto emotivo a questa situazione, ci fa finire dentro anche la nostra mamma protagonista (interpretata molto bene da Juliette Binoche, solo all’inizio del film forse un po’ macchiettistica) con la figlia ritrovata da poco. All’attivo momenti straordinari, come il momento in cui le due si ritrovano, o i lunghi piani sequenza che mostrano le masse di soldati e israeliani in lotta, nella confusione totale. Un film coinvolgente ed interessante.
Avvistato Gitai, per forza di cose: ero in sala con lui e il cast del suo bel film (ma ahimè senza la Binoche).
Ci si risente domani con gli ultimi quattro film in concorso (Greenaway, Marra, Michalkov e Chahine) e altro ancora. Il gran finale si avvicina…