Venezia 64: quarto giorno di Gabriele
Ok, oggi non inizierò subito a parlare dei film, ma di alcuni primi problemi che iniziano a manifestarsi in quest’ultima Mostra del Cinema. Visto che siamo un blog, possiamo parlare senza problemi certamente dei pregi del festival, ma anche dei difetti. Ieri vi accennavo al fatto che le proiezioni di Cassandra’s Dream fossero scese da
Ok, oggi non inizierò subito a parlare dei film, ma di alcuni primi problemi che iniziano a manifestarsi in quest’ultima Mostra del Cinema. Visto che siamo un blog, possiamo parlare senza problemi certamente dei pregi del festival, ma anche dei difetti.
Ieri vi accennavo al fatto che le proiezioni di Cassandra’s Dream fossero scese da cinque a due, di cui una esclusivamente per la stampa (guai sennò!) e una solo per il pubblico (ovviamente coloro che pagano: capito no?). Restano fuori, senza possibilità di appello, tutti i poveri accrediti cinema (quelli col “mitico” pass verde, ossia anch’io), ma anche addirittura gli accrediti Industry, che si sono visti trasformare la loro proiezione al PalaLido in una proiezione appunto per sola stampa giornaliera. La colpa? Ufficialmente della Filmauro, che distribuisce la pellicola; ufficiosamente, di Woody Allen. E il pubblico si lamenta, chiedendo a Muller di non invitarlo più.
Sembra esagerato, ma in fondo ci sta tutto: che si viene a fare ad un festival (tra l’altro del calibro di Venezia) per poi non far vedere alla maggioranza il film? Paura dei fischi, coda di paglia, paura di un insuccesso al botteghino, voglia di creare mistero? Allora si può anche non venire direttamente.
Il secondo problema è quello della proiezione di mezzanotte di Blade Runner: Final Cut, attesissima. Molti si sono messi in coda anche due ore prima, avendo così la certezza di poter comunque entrare. Ma la fila era davvero enorme e la gente si aggiungeva continuamente. A mezzanotte entrano alcuni accrediti (pochissimi); segue un’attesa di dieci minuti. Ingiustificatissima, perchè poi le porte vengono chiuse e non è entrato più nessuno.
Per la serie: probabilmente di posti ce n’erano ancora, eccome, ma il film doveva assolutamente iniziare. E l’organizzazione si è fatta notare in tutta la sua debolezza, riconfermando quanto siano “strane” le proiezioni in cui possono entrare sia il pubblico (che entra per primo) sia tutti gli accrediti (che entra cinque minuti prima dell’inizio della proiezione…). Se la sala fosse stata davvero piena (ne dubito!), con un’evidente maggioranza di pubblico pagante, perchè non lo si dice subito agli accrediti che aspettano in fila da ore, facendo loro perdere tempo e creando inutili disagi? Quelli della Biennale non hanno il numero esatto dei biglietti pagati per la proiezione, e così possono sapere quanti posti liberi sono rimasti per gli accrediti?
Vabbeh, adesso passiamo ai film di oggi. Il vero leone è stato senza alcun dubbio Ken Loach, che ha conquistato il Lido con il suo bellissimo film in concorso, It’s a free world… (da noi In questo mondo libero), che fa parte del filone sociale del regista inglese.
Abituati a nette distinzioni nei suoi film tra sfruttati e sfruttatori, colpisce in questo nuovo film la capacità di Paul Laverty alla sceneggiatura di mischiare le carte in tavola: non esistono più Carla o Joe dalla parte degli onesti e sfortunati, ma c’è una protagonista che crede di fare del bene e invece si trasforma in una “padroncina”, volendo aiutare alcuni immigrati a trovare lavoro a Londra e invece finendo per guadagnare decisamente più lei di loro. Angie (intepretata dalla straordinaria esordiente Kierston Wareing, credo seriamente candidata per la Coppa Volpi) è una donna che si è fatta da sola, ha un figlio a carico (che vede poco, perchè spesso lo lascia dai nonni) e viene licenziata di punto in bianco. Energica e piena di grinta, viene spontaneo immedesimarsi in lei, e in questo sta la potenza assoluta del film: anche quando Angie passa dalla parte del torto, lo spettatore, pur con qualche lecito dubbio, continua a tifare per lei… Il film è l’ultima parte di una trilogia dedicata all’immigrazione iniziata col bellissimo Bread and Roses e proseguita con il sottovalutato Un bacio appassionato.
In concorso troviamo anche il cinquantunesimo film del maestro della Nouvelle Vague Eric Rohmer, ossia Les Amours d’Astrée et de Céladon. Da noi è uscito ieri in sala, e magari troverò il tempo di scrivere una recensione più dettagliata. Per ora basta che sappiate che molti sono fuggiti dalla sala (non è certo un film per chi non ha alba di chi sia il suo regista o per chi cerca gran divertimento) e che i Cahiers hanno urlato al capolavoro (anche per ovvie ragioni…). Il film è citazionista e assolutamente rohmeriano nelle tematiche, bello quando è capace di inquadrare una natura bucolica in cui i protagonisti (bellissimi tutti e tre, ma Andy Gillet è stato giustamente paragonato al Tadzio di Morte a Venezia!) si possono perdere. Certo è che ha un sapore quasi “infantile”, e pur con qualche tocco delicato non lascia mai un vero segno, una vera emozione. Comunque troverà i suoi buoni difensori (i detrattori ce li ha già).
Ed ecco invece due brutti film. Nella categoria Orizzonti (che delusione, finora, soprattutto rispetto all’anno scorso!) ho visto L’Histoire de Richard O di Damien Odoul, dove Mathieu Amalric sta a trombare tutto il tempo. Si potrebbe pensare ad un inno al sesso o una riflessione sulla perversione, oppure uno spaccato di vita almeno curioso. Invece è un film che non fa alcun effetto, e si continua -cosa che ormai succede troppo spesso quest’anno in molti film- a voler cercare la provocazione e lo shock con scene di sesso un po’ hard e con falli ben in vista. Ci starebbe pure: peccato che questo filmettino sia spesso ridicolo e non dica proprio niente.
E poi ecco il mio primo film della sezione Settimana della critica: chi “ben” comincia… Già, perchè questo 24 Mesures di Jalil Lespert è un film corale che innanzitutto ruba a piene mani da illustri predecessori: Magnolia (la scena col figlio che desidera la morte del padre, in punto di morte sdraiato sul letto), Crash – Contatto fisico (una persona che ne investe un’altra), Shortbus (la voglia di esprimere la propria sessualità), e già che ci siamo ci mettiamo Inarritu (alcune coincidenze svelate con l’uso del montaggio a puzzle: già non era nuovo in Babel, ma rivogliamo la scena della valigetta di Jackie Brown!!). Non è un film orrendo, ma gioca con un genere che gli americani -almeno questo concediamoglielo!- hanno sviluppato sempre bene, con risultati a volte straordinari. Una battaglia persa in partenza? No di certo, però il risultato è quello che è: poco incisivo e spesso disordinato, con personaggi non approfonditi.
Avvistati Charlize Theron, Richard Gere, i tre giovani protagonisti del film di Rohmer, Giuliano Gemma e la figlia Vera.
Oggi è domenica, ed è durissima entrare a qualsiasi proiezione… Speriamo domani la situazione si calmi, dopo un week-end di fuoco.