Free State of Jones: recensione in anteprima
Pagina importa benché poco conosciuta, la vicenda di Newt Knight vista da Gary Ross in Free State of Jones si risolve per lo più nella pallida rievocazione storica
In piena Guerra di secessione, siamo nel 1862, Newton Knight (Matthew McConaughey) decide disertare l’esercito dei confederati. È un infermiere da campo che ne ha viste parecchie; dopo la morte dell’amato nipote, arruolato a forza, le sue riserve su questa guerra prendono il sopravvento e decide di abbandonarla. Tornato da sua moglie, una serie di vicissitudini lo pongono a capo di uno sparuto ma deciso esercito di schiavi e contadini che intendono ribellarsi alle insostenibili consuetudini dello stato del Mississippi.
Free State of Jones è film molto giusto, per certi versi impeccabile. Anzitutto si basa sulla storia vera di Newt Knight, che nella contea di Jones creò scompiglio ai sudisti, prima, come già detto, disertando, poi formando una piccola ma consistente armata di cosiddetti «uomini liberi». Una pagina importante, che anticipa quanto solo più tardi sarebbe avvenuto nei nascenti Stati Uniti, processo per cui ci volle non meno di un secolo, passando dall’abolizione della schiavitù fino alle lotte razziali degli anni ’60 del ‘900.Ma cosa sarebbe il cinema se ci si fermasse alla rilevanza storica? Il film scritto e diretto da Gary Ross è utile quanto all’evocare un momento magari sconosciuto ai più, altro è però il modo in cui riesce a farlo. E non che gli manchi la materia prima, intesa come mezzi e soluzioni. In primis gli attori, le cui performance (almeno in originale) in una certa misura contribuiscono a calarci in quel contesto lì; McConaughey per esempio, oramai prototipo dell’uomo del profondo sud, con quei suoi capelli oliosi, l’aria generalmente trasandata e la sua inconfondibile parlata, genera però quel senso di déjà vu che spezza, quantunque bravo, la nostra sospensione d’incredulità. Ad ogni buon conto, è il non riuscire a chiudere il cerchio che tende a far evaporare il film, sorprendentemente meno interessante man mano che va approssimandosi il suo epilogo.
L’incedere lento, pressoché innocuo di Free State of Jones, lungi dall’evidenziare la calma di un discorso che vuole essere alla portata di tutti, denuncia invece la mancanza di un’idea adeguata, d’impatto rispetto a come veicolare la vicenda. A tratti contemplativo, con queste brevi panoramiche, se non altro suggestive, che accompagnano quelle sequenze in cui Ross congela la narrazione per ricordarci che sì, il suo è un film; oltre a questo però non va, ed è il massimo che purtroppo riesce a dirci su come ha concepito questa sua trasposizione. La complessità delle dinamiche ci resta perciò per lo più preclusa, segnata dall’inequivocabile nettezza dei ruoli, dal suo porre l’accento su chi siano i cattivi e chi i buoni, trattamento anacronistico circa un periodo in cui tante cose che oggi diamo per scontate all’epoca non lo erano.
È il dramma di voler portare la Storia sul grande schermo, specie quando l’intento di fare luce su di essa è dichiarato, come in questo caso: non vanno presi i fatti ed elaborati secondo la nostra sensibilità, bensì ci si premura prima a calarsi in quella mentalità per poi, in un secondo momento, trattare con maggiore cognizione di causa qualsivoglia evento. Lo scorno nel dare del «negro», al tempo sinonimo di «schiavo», tradisce questa mancata attenzione, specie quando nel corso di una scena Newt si mette pure a ragionare sulla semantica. Ma sono limiti che ahinoi si aggiungono ad altri, senza dubbio più significativi.
È infatti evidente la difficoltà di Ross nel condensare in 130 minuti questa storia che si sarebbe prestata molto meglio ad una serie TV, non riuscendo infatti a costruire quanto serve per caricare il tutto in vista dell’apice. Qua e là si segnala qualche passaggio interessante, qualche scena un po’ più cruda, ma non sono sufficienti a sopperire a quanto manca sul fronte della drammaticità. E temo che il problema sia sempre lo stesso: a tal punto si è ripiegati sul messaggio, sulla portata morale di quanto si racconta, che tale preoccupazione funge da limite, come se tarpasse le ali in vista di racconto più libero ed attento ad altri elementi; su tutti, rendere accattivante ciò che si racconta.
Troppa fiducia nel materiale perciò, risultato forse di una scuola, il cui pensiero pare essere dominante un po’ dovunque, per cui servono idee forti, soggetti originali e compagnia cantando. No, serve che si abbia a cuore il gusto del racconto, le sue modalità, quale che sia il contenuto; serve che non ci si adagi su un soggetto credendo che questo basti a sé stesso. Sia chiaro, nessuno pensa, così come certamente non l’avrà pensato Ross, che la lezione di Storia fosse abbastanza per giustificare l’esistenza di Free State of Jones. Ma una tale riverenza verso l’argomento mal si concilia con le tante opportunità che una storia del genere offrirebbe qualora si fosse sì rispettosi ma al tempo stesso più aperti. Due esempi, diametralmente opposti, su tutti: da un lato 12 anni schiavo di Steve McQueen, il quale, volendo, soffre del medesimo difetto del film in esame; dall’altro abbiamo Lincoln di Steven Spielberg, che coglie a pieno la chiave di lettura nei termini sin qui accennati.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
Free State of Jones (USA, 2016) di Gary Ross. Con Matthew McConaughey, Gugu Mbatha Raw, Mahershala Ali, Keri Russell, Brian Lee Franklin, Donald Watkins, Christopher Berry, Sean Bridgers, Bill Tangradi, Thomas Francis Murphy, Joe Chrest, Jacob Lofland, Brad Carter, David Jensen, Kurt Krause, Carlton Caudle e Martin Bats Bradford. Nelle nostre sale da giovedì 1 dicembre.