Dick & Jane – Operazione furto, trasposizione semplicistica di un dramma dei nostri tempi
Difficilmente poteva sperare in un parere favorevole, da parte della critica di casa nostra,questo film, scottati come siamo dagli scandali finanziari che ancora bruciano le coscienze di pochi e i portafogli di tanti. Eppure, “Dick & Jane – Operazione furto “ una sua morale ce l’ aveva eccome e per reperirla dobbiamo far riferimento ad
Difficilmente poteva sperare in un parere favorevole, da parte della critica di casa nostra,questo film, scottati come siamo dagli scandali finanziari che ancora bruciano le coscienze di pochi e i portafogli di tanti. Eppure, “Dick & Jane – Operazione furto “ una sua morale ce l’ aveva eccome e per reperirla dobbiamo far riferimento ad una celebre bancarotta americana cui rimase coinvolto persino Bush, all’ inizio del suo mandato e che riguardò la Società Enron.
Nessun regista d’ oltreoceano, dunque, avrebbe mai osato affrontare l’ argomento col piglio giornalistico, qui da noi è un’ altra cosa, certi scandali si narrano di petto, in America si tende a tacciarli, affrontando il problema da un’ angolazione diversa più volta alle conseguenze che un simile dissesto finanziario arreca al singolo individuo piuttosto che all’ intera collettività.
Forse, è proprio da questa diversa angolazione,avulso da una certa dose di perbenismo e da una morale spicciola, che si ricava l’ etica di tutto il lavoro cinematografico, in cui nessuno dei protagonisti finisce per brillare di luce propria, dove persino i contenuti del dramma rappresentato culminano nella banalizzazione della ricerca di una comicità spicciola, semplice, persino ridicola, nel tentativo, spesso vano, di trasformare l’ intera vicenda umana in una sorta di sipario da avanspettacolo messo su a rappresentare la tragedia di chi perde un lavoro foriero di gradi soddisfazioni e di invidiabile benessere, per ritrovarsi, di colpo, ad elemosinare un’ occupazione umile, purchè in grado di fargli sbarcare il lunario.
Su questa ossatura centrale si muove l’ intero film, in una sorta di riso amaro che coinvolge un manager in carriera rimasto a spasso a seguito del fallimento dell’ azienda in cui lavora e della moglie, disoccupata per scelta,che dovrà condividere con lui questa parte difficilissima della propria esistenza pervasa da stenti e rinunce continue.
Non è il miglior film che abbiamo visto ultimamente, anzi, a tratti è persino scialbo e un po’ scontato, ma bisogna dare atto al regista, Dean Parisot,di esser riuscito a tracciare uno spaccato coraggioso di una società che si preferisce nascondere agli sguardi altrui, la stessa società occidentale, capitalistica,in cui la facciata è sempre fatta di successi e brillanti carriere, di una società fatta di incertezze, illusioni e tante umiliazioni. A lui il merito di riuscire ad inserire un pizzico di comicità, amara, nei dialoghi, ma il risultato non è eccelso, il film procede stancamente fra momenti di lunghe narrazioni che approdano a poco. Eppure l’ argomento è scottante e attuale e il contenuto sociale è ricercato anche nella scelta dei protagonisti, Jim Carrey e Tea Leoni che finiscono, essi stessi, intrappolati nei personaggi senza riuscire a venirne fuori esprimendo, come sarebbero stati capaci di fare, se stessi.
L’ impressione che se ne trae, in conclusione, è che ad essere rimasto invischiato nel suo stesso film sia proprio il regista, non ancora maturo, forse, per trasferire nello spettatore quel dramma che ha tentato di rappresentare e che ha finito per banalizzare, creando qua e là qualche battuta ad effetto da mettere in pasto ai suoi protagonisti per rendere più scorrevole una trama troppo impegnativa per il regista stesso e troppo compromettente per essere affrontata come forse meritava di farsi.
Giuliano Marchese