Mary a Venezia62
Mary (Abel Ferrara; USA, Francia, Italia 2005) – [di Impostore] Un colpo di pistola risucchia nel nero di una dissolvenza il volto di Madonna in una sequenza memorabile e terribile di “occhi di serpente”. E’ la cancellazione della soggettiva femminile, la negazione di una visione che si vendica come un demone ai danni di Willem
Mary (Abel Ferrara; USA, Francia, Italia 2005) – [di Impostore]
Un colpo di pistola risucchia nel nero di una dissolvenza il volto di Madonna in una sequenza memorabile e terribile di “occhi di serpente”. E’ la cancellazione della soggettiva femminile, la negazione di una visione che si vendica come un demone ai danni di Willem Defoe e del suo racconto noir in “New Rose Hotel”, dove il crimine invisibile non coincide più con la soppressione del desiderio Femminile, ma con la sotituzione da icona a soggetto della sua storia, in una riallocazione virale del montaggio.
Senza questa prospettiva, crediamo sia difficile comprendere il cinema di Abel ferrara, troppe volte liquidato o mitizzato come incubo cristologico, delirio estremo, noir del peccato. Sciocchezze; Abel Ferrara è uno dei pochi registi contemporanei capace di mettere in scena la propria soggettiva, prima ancora di quella del “racconto”, e di farla a brandelli rendendola permeabile ed esposta al trauma della possessione. Per far questo è necessario abbandonare qualsiasi “escatologia” della visione, compreso la propria. Le storie o le tracce di queste all’interno di Mary sono note e rischiano di essere neutralizzate da quella forma addomesticata che è la sinossi; Tony Childress (Matthew Modine) è Gesù nel suo film This is My Blood, e deve fare i conti con la crisi spirituale di Marie Palesi (Juliette Binoche), una Maria Maddalena “cinematografica” ispirata dai Vangeli gnostici e dalle ricerche di Elaine Pagels. La crisi di marie/maria è il primo germe di possessione che Ferrara sviluppa con procedimento spiraliforme (Blackout, Bad Lieutanant); ed è anche la marginalizzazione di Juliette Binoche fuori dal set, recuperata attraverso inserti del suo viaggio a Gerusalemme come immagine fantasmatica, visione, rivelazione, epifania, voce telefonica lontana e impermanente, fuoricampo che attenta all’equilibrio dell’immagine.
La pressione qualitativa di questo fuori campo contro i margini delle immagini è potentissima, innesca lo sviluppo di alcune intuizioni gnostiche e allo stesso modo non coincide con la prospettiva delle immagini di Childress, terrorizzato dalla possibilità che marie/maria si manifesti come virus attivo della visione e fuoriesca dal suo valore politico introducendo il delirio o la possessione della fede.
Do you believe?
Ted Younger (Forest Whitaker) è il conduttore di un talk show sulla vita di Gesù, entra in contatto con Childress e attraverso le sue testimonianze, con marie/maria. E’ incredibile come Ferrara riesca a stratificare la visione introducendo in questo contesto gli interventi di Jean-Yves Leloup, quelli sull’identità ebraica di Amos Luzzatto, l’accesso maschile ed esclusivo alla ritualità della preghiera, la ricollocazione ossessiva delle immagini sul conflitto israeliano-palestinese, e la crisi di Ted Younger stesso che perde progressivamente il controllo del suo show e si avvicina più degli altri all’in(comprensione) della croce . La sequenza della telefonata di marie/maria che interviene in studio, come interferenza lontana, è un esempio durissimo di non-testimonianza, se intendiamo per testimonianza la truffa del racconto oggettivo ed escatologico-ontologico (dalla macchina cattolica del “peccato” fino alla sostituzione laica con il “caso” che schiaccia e non permette di vedere) che mente e si camuffa da esperienza soggettiva . Coincide con quel “farsi visione” che è l’immagine censurata da Pietro nel Vangelo di Maria, coincide con la soggettiva femminile che si fa strada come infezione vitale sull’immagine della Storia. Mary è un film cupissimo che non si chiude alla sovraesposizione della visione, è costruito su una tensione eterotopica che si squama e non ri-concilia, rivendicando la possibilità individuale di morire e risorgere, di essere la visione oltre i generi, di costruire il proprio film o in queste giornate, il proprio festival come (s)fiducia nel cinema. E ancora, Mary non è Dan Brown, a cui manca il tormento del dubbio;curiosa e divertente in questo senso l’attitudine critica che anche in questi giorni si è battuta per definire, marcare, assicurarsi confini e territori all’interno di un festival davvero apolide e imperfetto (finalmente!), costretta a fare i conti con un film che forse ne è una chiave interpretativa stimolante di questa sovrimpressione festivaliera. Esempio flagrante le domande che piovono su Ferrara e sulla sua “relazione dogmatica” con il doppio presunto di Tony Childress, quasi a negare il processo di disseminazione che il film mette in atto.
Mary è un film teso e trascinato dalla musica di Francis Kuipers, chitarra blues annegata in drones orchestrali senza inizio ne fine.
Mary è un bellissimo film sul tempo e la memoria, che per chi scrive ha più di un riferimento impossibile con Bad Timing.