Brick a Venezia62
Brick (Rian Johnson, Usa 2005) Brendan osserva il cadavere di Emily sul lato di una fognatura; è annichilito dal terrore o forse dal dolore. Non c’ è tempo per capire, se non illudendosi di recuperarlo, il tempo. Cabina pubblica; riceve una telefonata, è la voce di Emily, sconvolta, che[…]
Brick (Rian Johnson, Usa 2005)
Brendan osserva il cadavere di Emily sul lato di una fognatura; è annichilito dal terrore o forse dal dolore. Non c’ è tempo per capire, se non illudendosi di recuperarlo, il tempo. Cabina pubblica; riceve una telefonata, è la voce di Emily, sconvolta, che mastica alcune parole; Brick, The Pin, Frisco; Emily è terrorizzata, fuori di se, ormai fa parte di un altro mondo e Brendan non può far niente per aiutarla, tranne espiare la paura e la morte ficcandosi in un intreccio luridissimo fatto di droga, paranoia, potere, morte. Con una serie di Flashback nidificati Brick, opera prima di Rian Johnson proiettata a venezia 62 per la settimana della critica, si assesta come un pugno nello stomaco e la fiamma di un accendino puntata in mezzo agli occhi.
Dashiell Hammett, l’hard boiled classico, tutti gli oggetti e i dettagli del noir, sono le radici di un riferimento solido, radicato, perseguito con rigore estremo; eppure il decor è quello di un liceo americano. Il sospetto di un’alchimia dell’ennesimo teen movie come attrattore per altri generi sfuma dopo i primi 10 minuti di film; Brick non è un gioco alla Scream, non parodizza servendosi della superficie e della citazione, ma isola e neutralizza gli elementi di un genere all’interno di uno spazio astratto. Rian Johnson sa benissimo che destrutturare non significa distruggere, e conosce a memoria le possibilità dissipative della forma noir classica; un sistema bastardo, apocrifo, figlio di più origini, scuole, tecniche, tradizioni. Tant’è le utilizza partendo dallo studio delle radici rese feconde in un territorio alieno. Il set è una scuola iperrealista dove Biblioteche, palestre, spazi di aggregazione, parcheggi, cortili, sono lo scrigno dei personaggi e dei loro segreti, un po’ come trapiantare il labirinto di segni che si generano nell’appartamento di “Detour” in un deserto giovanile contemporaneo. La transizione verso la parodia è cadenzata da questi stessi segni che collassano in un tempo della percezione altro, risucchiati non appena il gioco corre il rischio di trasformarsi in una variante sofisticata di un dispositivo noto. Brick è un film cupissimo, violento, un viaggio crudele nel dolore dell’adolescenza; il cinismo e la disillusione si appropriano fedelmente della postura di un genere e ne acutizzano il potere e le possibilità. Lo spazio dei dettagli materiali della detection, traccia il percorso di un cinema della memoria sovrapponendo set e oggetti; Brendan nel covo del “Perno” (The Pin) con la testa sotto il piede di Tug che cerca di torcergli il collo; uno scambio di battute feroci, velocissime, con l’intreccio che scorre funzionale tra immagini e parola, e il testo che si sfalda stemperando l’orrore; “Ce ne andiamo su a prendere qualcosa, con calma?” E Brendan, il Perno e Tug si trovano tutti in cucina a mangiare Cereali e latte versato da un bricco a forma di gallina, mentre la madre di The Pin chiede se ne vogliono ancora. Si potrebbe scambiare questo procedimento come uno switch facile da spegnere e accendere, un interruttore simile al trick temporale di Rules of Attraction. Eppure il trucchino tardo postmoderno che diventa un codice ci pare non sia l’approccio di Rian Johnson; piuttosto ricavare dai caratteri, dalle posture, dagli oggetti, gli elementi di rappresentazione di una psiche schizoide; il passaggio crudele dalla morte al gioco tipico delle forme (letterarie, linguistiche, psichiche) adolescenziali. L’universo è quello di un Lynch dove la marcatura del genere è sicuramente un territorio più delimitato, ma allo stesso tempo pronto ad aprirsi verso l’abisso di una luce intermittente o verso il nero dell’immagine.
L’oggetto/soggetto femme fatale è quello sottoposto ad una maggiore stratificazione; il rivelatore più interessante è nel personaggio marginale di Kara (Meagan Good); spacci-attrice troia e di colore, congelata sempre dietro le quinte di un teatro, adesso conciata come una puttana, poi come un’icona del cabaret più laido, infine come una maschera del teatro no è l’immagine contro cui Brendan scaglia oggetti, distrugge gli specchi della sua rifrazione, ma che non vacilla di un millimetro nella sua produzione di segni.
Brick, ersodio davvero fulminante, prima di approdare a Venezia, si era imposto all’attenzione dell’occhio Sundance di quest’anno, prendendosi il premio speciale della giuria; magnificamente girato e montato, si serve del suono cronometrico e Jazzistico di Nathan Johnson del volto inquietante di Lukas Haas (ricordate il bimbo nel Witness di Peter Weir) e del talento di Joseph Gordon Levitt, già in Mysterious Skin di Araki. Chiude sul nero il rantolo strascicato di Sister Ray dei Velvet Underground:
“I’m searching for my mainline
I couldn’t hit it sideways”