David 2020, un segnale per il cinema italiano?
Al di là del successo de Il traditore, il Palmares dei David tende a riconoscere alcune incoraggianti tendenze
Che da questi David di Donatello vi sia un titolo che ne è uscito vincitore mi pare evidente. Il traditore di Marco Bellocchio si è aggiudicato più premi di tutti, e tutti importanti, dal Miglior Film in giù. Chi scrive ne parlò da Cannes lo scorso anno, dopo averlo accolto in maniera più tiepida rispetto ad altri a cui invece l’operazione convinse. Merito anche di un Pierfrancesco Favino che da un periodo a questa parte è in stato di grazia, ed il cui peso immagino sia stato significativo. Ma non è sul suo Buscetta che dobbiamo soffermarci oggi, per cui, a chi fosse interessato, non mi resta che rimandare alla recensione de Il traditore.
Sì perché, al di là del successo riscosso da Bellocchio, mi pare che questi David abbiano anche avuto il merito di formalizzare altre situazioni interessanti, che già emergevano dalle nomination. Alla vigilia ho avuto modo di dire che il cuore batteva per Martin Eden, mentre il cervello suggeriva Il primo re; non avendo avuto modo di specificare cosa intendessi dire, ne approfitto per chiarire.
Anzitutto questo non era un pronostico, bensì una sorta di dibattimento interiore sul mio, personale miglior film. Della cinquina, infatti, quello che ho apprezzato di più è stato il film di Pietro Marcello, al quale comunque è stato riconosciuto un premio mica da poco, ossia la Migliore Sceneggiatura Non Originale, il che mi sembra comunque sufficiente a dire che il regista casertano non possa dirsi ammaccato; se ne va a casa con un riconoscimento importante, che certifica peraltro un passaggio andato a buon fine, quello da un cinema vagamente documentaristico, per quanto ibrido (se non sperimentale), ad una forma ben più ordinata, classica. Martin Eden fa inevitabilmente tesoro dell’esperienza maturata da Marcello, il quale, dopo il già riuscito Bella e perduta (2015), affina ulteriormente i propri strumenti e scolpisce un film di narrazione più rotondo, disciplinato se vogliamo, ma non per questo meno privo di vitalità.
Detto questo, sono due i film che dal responso di quest’anno non debbono passare inosservati, ed a ragion veduta. Intanto il già citato Il primo re; film che in sede di recensione ho cercato d’inquadrare al meglio che ho potuto, evidenziandone i limiti ma al contempo esaltandone l’ambizione, così come il risultato stesso. Non si tratta infatti solo di un «voler essere»; il film di Matteo Rovere si regge sulle proprie gambe, sebbene non siano ancora quelle di un atleta, se ci passate la metafora. A Il primo re va riconosciuto il tentativo di spingersi verso un territorio non soltanto non facile, ma che in Italia da troppo tempo si è accuratamente evitato di esplorare. Che si rifaccia ad un linguaggio piuttosto codificato quale è quello di certe produzioni hollywoodiane, come evidenziato, è in parte un limite, ma in parte pure sintomo di un ritrovato vigore, che sta tutto nell’osare; ma soprattutto, nell’avere finalmente i mezzi, non solo tecnici, per potercisi cimentare. Per questo insignirlo col premio al Miglior Produttore mi pare corretto, finanche giusto, nella speranza che tutto ciò contribuisca a dare seguito a siffatto coraggio.
Più o meno sulla medesima linea di pensiero si pone il ragionamento che tocca fare rispetto a Pinocchio. Il film di Matteo Garrone, un po’ come avvenuto con Il racconto dei racconti, è la dimostrazione di come certe maestranze da noi ci sono e danno frutti notevoli. Non per niente, a parte il Miglior Suono e il Miglior Montatore, andati rispettivamente a Il primo re e Il traditore, tutti i premi tecnici se li è accaparrati l’ultimo lavoro di Garrone. Ed è un verdetto senza appello, perché la commistione tra scenografia, costumi, trucco ed effetti speciali rappresenta un unicum nel panorama odierno del nostro cinema. Un’unione che trova una propria collocazione, dunque una propria dignità, persino se messo a confronto con produzioni ben più ricche e rodate, anche perché, a mio parere, consapevole dei propri limiti, coi quali ci si relaziona con intelligenza, in alcuni punti addirittura integrando quel briciolo di poesia teso ad innalzare il valore generale.
Ecco, al di là delle preferenze, sarebbe incoraggiante se i David di Donatello di quest’anno costituissero una tappa importante verso l’emancipazione da certo modo di fare cinema; che non significa rigetto totale, ossia porsi in antitesi con tutto ciò che è stato (non per niente il vincitore assoluto resta un film legato a certe forme tradizionali, a prescindere dal fatto che sia migliore o peggiore di altri). Si tratta d’immaginare un ambiente entro cui sviluppare altri modi di raccontare, prendendo ispirazione da chi è più avanti rispetto a noi, step ineludibile, ma al contempo, una volta presa confidenza con certi schemi e dinamiche, tentare di costruire una o più voci diverse, originali sì, ma senza la frenesia per l’originalità a tutti i costi. Qualora l’edizione di quest’anno certificasse un passo ulteriore verso tale destinazione, si tratterebbe di una di quelle annate da ricordare e su cui toccherà ritornare.