Venezia 2016: un remake de I Magnifici 7 che passa attraverso Sergio Leone
Cinquantasei anni dopo il remake firmato da Antoine Fuqua, un didascalico e spettacolare che rende omaggio al vecchio film di John Sturge, con Yul Brinner, Eli Wallach e Charles Bronson (poi scritturati dal regista italiano che con i sui film rilanciò negli sessanta il western girando in Italia e Spagna e conquistò Hollywood con “C’era una volta il West”
Vorrei ascoltarli. Ascoltare chi? Coloro che brontolano scontentezza e addirittura mescolano insulti, uscendo dalla Sala Darsena, dove è stato proiettato fuori concorso I magnifici sette, il remake dell’originale che viene dall’inizio degli anni sessanta. Sono gli stessi che quando vedono i film di Quentin Tarantino dichiararono elogi senza rete, accecati anche quando non è il caso. In realtà, ne ascoltati alcuni. Sono quasi schifati, nauseati. Ma siamo alle solite. Sono stroncatori ma quando voglio attenuare, dicono a denti stretti: mi sono divertito. E non è vero. I pregiudizi sono il pane e companatico dei frequentatori dei festival, che non sanno neppure cosa vogliono e cercano alibi per inventarsi, capricciosamente, scelte amate. A volte insopportabili.
Le differenze tra il primo “I magnifici sette”, ispirato a giapponese “I sette samurai”, e questo di Antoine Fuqua, non sono molte. Intanto, la luminosità. Brillantezza, colorii squillanti, paesaggi scanditi, saloon in piena luce. In questo, secondo, tutto è immerso nella penombra e nel buio; i personaggi sono presentati senza alone, come vera e propria feccia, belli tutti ma non splendenti, anzi minati dall’alcool e dal rancore.
Non c’è aria di leggenda per Fuqua, ma soprattutto convinzioni nate casualmente, vaghe reminiscenze, amicizia improvvisata e interessata a guadagni tra bari; sete di denaro e di brividi con la pistola. Non sono cavalieri erranti sono banditi sciolti che apprezzano le promesse se sorrette da buon guadagno. E con il compenso, i sette vengono convinti a partecipare da una donna, una farmer, a cui un proprietario terriero ha ucciso il marito, poichè questi aveva fatto rimostranze di fronte alla una minaccia del torvo proprietario, interessato a espropriare con la forza la terra che rivendica.
Danzel Washington è lo Yul Brynner della situazione, il capo dei sette, e accetta di impedire l’impresa, la presa di possesso del proprietario terriero, facile di pistola, feroce, sadico. Questa è la parte migliore del film per come è disegnato l’arruolamento e la capacità delll’ex bandito, ormai uomo della legge, che con pazienza riesce a parlare alla coscienza addormentata, pronta a scattare, dei sei uomini che lo hanno seguito.
Poi, il film si avvia a descrivere la “guerra” tra i coloni che vengono addestrati dai fuorilegge che hanno aderito a tutelarli, e a far pagare al proprietario terriero soprusi, delitti, annessioni violente, futuro delinquenziale.
Lo scontro finale, previsto, atteso, è una vera e proprie battaglia con molti colpi di scena, invenzioni di artificieri, in mezzo a pistolettate, raffiche di una mitragliatrice nuova di zecca, bombe improvvisate, cavalcate, eccetera.
Niente di speciale, la trama qui finisce, non è originale, poichè prendono il sopravvento le azioni, le parole, gli atti di giustizia sommarie.
Cosa resta? Resta, la lezione di Sergio Leone, non solo nell’organizzazione del racconto, nei duelli, nel piccolo grande conflitto in paese totalmente distrutto, nei dialoghi i gesti di personaggi, pacati, pensosi, sussurrati; ma anche nelle atmosfere sospese, nella musiche, nei rumori-musica. Una lezione e un omaggio di Fuqua e dei suoi banditi epici, pronti a morire per orgoglio e dignità, la dignità cara a Leone, epica senza motivazioni, epica ed etica saldate insieme. Qualcosa di speciale, di particolare.