Venezia 2016, David Lynch: The Art Life – Recensione in Anteprima
Dopo 12 anni di produzione arriva finalmente al cinema David Lynch: The Art Life, ipnotico e conturbante documentario sulla genesi artistica dell’iconico regista.
Certamente regista, sceneggiatore e produttore ma anche, se non soprattutto, pittore, scultore, musicista, compositore, scenografo e scrittore. Attualmente al lavoro sul sequel tv di Twin Peaks e autore di solo 10 lungometraggi in 40 anni di carriera, Lynch ha qui ripercorso i primi 30 anni della propria vita attraverso aneddoti mai raccontati, foto e filmini d’epoca, disegni, pensieri e inedite immagini dei suoi primissimi lavori. E’ lo stesso regista a condurci lungo i cunicoli dei propri ricordi, mentre fuma decine di sigarette, beve litri di caffè e dipinge, costruisce, produce. Una vita di sola arte, 24 ore su 24, che Barnes, Nguyen e Neergaard-Holm hanno faticosamente provato ad osservare e riprodurre, miscelando con sapienza suoni, musiche ed immagini estratte dai suoi studi, dalle sue gallerie d’arte, dai laboratori di scultura e pittura. Un universo lynchiano che da tempo, oramai, accoglie il regista a braccia aperte affinché possa dare sfogo alla propria inesuaribile vena artistica.
Dalla tranquilla infanzia nella provincia americana all’arrivo nel’odiata Philadelphia, che ne aumenterà ansie e paure. Tappe adolescenziali che Lynch riporta a galla attraverso brevi ma significativi episodi, personaggi appena accennati eppure fondamentali nella costruzione di un cupo e visionario mondo che lentamente prenderà sempre più vita, mostrando indirettamente a noi spettatori tanto l’uomo quanto l’artista. Impossibile capire dove finisca il primo e dove inizi il secondo, perché sin dall’infanzia Lynch vede il mondo in modo diverso rispetto agli altri, tra contraddizioni e ossessioni, visioni oniriche e paranoie. E’ il nostro passato che colora l’oggi, idee più astratte comprese, che le reinventa, le influenza e trasforma, sottolinea il regista, per un doc che ne rimarca tanto la complessità quanto l’assoluta unicità.
Le origini di un genio, potremmo definirle, cinematograficamente parlando ‘nato’ con The Alphabet, corto ibrido tra installazione e cinema sperimentale del ’68 che gli spalancò le porte dell’American Film Institute. Quella borsa di studio, per lui insperata, gli cambiò di fatto la vita, dando ulteriore forza a quell’ipnotica visione che anni prima l’aveva visto folgorato dinanzi ad un proprio quadro. Perché a suo dire si muoveva. Le immagini da lui dipinte si stavano spostando, e fu lì, in quel preciso istante, che la settima arte incrociò la sua strada. Nel 1970 The Grandmother, corto di 34 minuti interamente girato nella sua casa, suscitò talmente tanto clamore da portare Lynch a Los Angeles, nella soleggiata California. Ad accoglierlo il conservatorio dell’American Film Institute. Ed è qui, nelle stalle dell’istituto, che il regista inizia a lavorare all’iconico Eraserhead – La mente che cancella, ansiogeno capolavoro completato solo dopo sei anni di fatiche e infiniti problemi produttivi (perduta anche la casa, oltre a moglie e figlia, tanto da dover dormire sul set). Il resto è storia, più o meno conosciuta e non a caso qui completamente lasciata in disparte, per un Giardino delle Delizie cinematografico (il capolavoro di Hieronymus Bosch troneggia sul suo tavolo di lavoro) che illumina le mille facce di un uomo inafferrabile, surrealista nell’animo e oscuro nella propria rappresentazione, mai così tanto umano tra gli umani. L’unica pecca? Purtroppo finisce, The Art Life, dopo ‘solo’ 90 minuti.
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David Lynch: The Art Life (Doc, 2016, Usa) di Rick Barnes, Jon Nguyen e Olivia Neergaard-Holm; uscita in sala gennaio 2017 con Wanted.