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Jia Zhang-ke, lettera dalla quaratena

Dall’isolamento di casa sua, a Pechino, Jia Zhang-ke mette nero su bianco pensieri, apprensioni ed auguri a fronte dell’attuale situazione

pubblicato 25 Aprile 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 11:36

Tempo addietro abbia segnalato su queste pagine un resoconto di Pedro Almodóvar, il quale aggiornava non tanto sulla quarantena in sé (d’altronde, che si dovrebbe raccontare?), bensì su quali fossero ricordi e pensieri che nei giorni precedenti lo aveva sfiorato o attraversato del tutto. E c’era nostalgia, paura, e tutto quel ventaglio di sentimenti che ciascuno di noi, in fondo, va sperimentando in questi giorni di profonda incertezza, non tanto sul presente ma su un futuro che o si predice apocalittico oppure non si sa come predire affatto. Il resto sono desideri, mentre ciò che in questo momento serve è una fondata speranza, né più né meno.

Ad ogni modo, anche Jia Zhang-ke si è sentito in dovere di condividere i suoi pensieri, e dal suo ritiro forzato di Pechino ha scritto una lettera non meno accorata, sebbene più contenuta, se vogliamo più discreta rispetto a quella di Almodóvar; culture diverse, si può capire. Il regista cinese parte dal suo ritorno a casa da Berlino, il 4 marzo: ad accoglierlo un bell’isolamento, misurazione della febbre tre volte al giorno, internet e passeggiate domestiche.

Non c’è voluto molto prima di sentirsi come in carcere: «ho provato a tenermi impegnato coi social ma dopo pochi giorni era stufo di essere confinato dietro a delle porte chiuse. Mi sono sentito come un cane che vaga per le strade, trascorrendo i propri giorni a bazzicare gli angoli delle vie, e che all’improvviso viene chiuso in una gabbia; alla fine gli mancano quei giorni passati per strada».

Al che giunge il momento della rievocazione, il ricordo di un passato rispetto al quale l’attuale contesto tende ad amplificarne portata e lontananza. Parafrasando Gabriel Garcia Marquez:

[…] anch’io potrei dire: «Molti anni dopo, mentre affrontavo la pandemia da coronavirus, mi è tornato alla mente quel lontano pomeriggio in cui mio padre mi fece scoprire il cinema». Quel pomeriggio, cinquecento persone erano stipate nel cinema della mia cittadina, guardando un film insieme, ridendo, piangendo ed esclamando allo stesso momento. Al tempo non avevamo ancora i cosiddeti multiplex. Ogni film proiettato si riempiva di centinaia di persone, persino nei corridoi non c’era posto. Più avanti quello del multiplex è diventato un fenomeno diffuso in Cina. Una sala con cento posti a sedere è già un grande luogo d’incontro per una proiezione. Ma va bene, possiamo ancora incontrari in un cinema, guardare un film insieme sapendo che ciascuno di noi ha l’altro in quel buio.

Perciò Jia Zhang-ke la butta inevitabilmente sull’esperienza, su quello stare insieme partecipando ad un’attività comune, condivisa. Ed è questo che tale situazione, a suo dire, sta mettendo a repentaglio, con le sale tutte chiuse. Un fenomeno che però ricollega per forza di cose all’avvento di nuove forme di fruizione, internet su tutte, che in un momento come questo diventano onnipervasive.

Ma se fin qui il regista scrive cose magari sentite ma in fin dei conti già dette, da questo punto in avanti tira fuori qualche spunto più interessante.

Eravamo abituati, per via della Storia, a classificare i registi in due categorie: quelli che hanno fatto la guerra e quelli che non l’hanno fatta. Diverse esperienze conducono ad una diversa comprensione della natura umana e di quella della società. Dopo molti anni potremmo trovarci a dividere i registi in altre due categorie: quelli che hanno vissuto all’epoca del COVID-19 e chi invece se l’è risparmiata.

Oltre che al contenuto, sarebbe interessante capire se anche nell’originale cinese (la fonte da cui traduco è in inglese) vi è l’utilizzo del passato, ad indicare un’abitudine già superata, laddove descrive «com’era prima», un prima che in fondo risale a meno di tre mesi fa. Non sono inezie, perché già questo denuncia un cambiamento in atto che, al di là di tutte le implicazioni a livello esistenziale e sociale, sfere senz’altro più decisive, bisognerà capire come inciderà sul modo di fare cinema da parte dei cineasti, se non proprio come verrà inteso, quale sarà il significato della Settima Arte fra un po’.

A tal proposito ha decisamente un suo perché quanto il regista evidenzia in relazione a quello che, verosimilmente, è stato fin qui il suo ultimo lavoro.

Di recente ho girato un corto commissionato dal Thessaloniki International Film Festival. L’ho fatto in questo stato di confinamento e s’intitola Visit, girato con un cellulare. Dura appena tre minuti ed è una storia triviale sui giorni della pandemia. Quando ho rivisto il mondo dalla cornice di una videocamera, mi sono sentito come un bambino che impara ad alzarsi e comincia a camminare – difficile ma emozionante al tempo stesso.

Sensazione che, avverte Jia Zhang-ke, lo ha spronato a ragionare sull’importanza di rialzarsi, affrontare questi tempi con coraggio ed onestà, guardando a quel giorno in cui si potrà tornare insieme ad occupare le poltrone di una sala, fianco a fianco, «il gesto più bello dell’intera umanità». Che Dio t’ascolti, Jia.

via | Filmkrant