Macchine Mortali, recensione: del delirante steampunk anti-imperialista
La «società dello schermo» se ne va con l’apocalisse. Macchine Mortali è un mondo di città che si spostano come veicoli, un mix di suggestioni troppo denso a fronte di una scrittura scialba, che vanifica in toto le accattivanti premesse
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Macchine Mortali è un delirio steampunk che muove le premesse da un incipit post-apocalittico, quei sessanta minuti in cui il mondo è cambiato radicalmente e la specie umana è quasi scomparsa. Non del tutto però: ora l’umanità si è per lo più stanziata in città semoventi, dei colossi à la Transformer che si compongono e scompongono alla bisogna. In pratica l’uomo è diventato un nomade, non ha fissa dimora, il sogno realizzato di chi aspira ad essere cittadino del mondo. E sono svariate le implicazioni, le metafore in alcuni casi anche sin troppo esplicite, che collocano Macchine Mortali all’epicentro del discorso, tra una Brexit ed un sogno chiamato multiculturalismo. Però, ecco, appunto, certe letture ci dicono qualcosa, certo, lasciando ad ogni buon conto irrisolti altri quesiti.
Il film si apre sul volto coperto a metà di Hester Shaw (Hera Hilmar), che osserva da un’altura l’approssimarsi di una di città immensa, la nuova Londra. L’intuizione visiva qui è interessante, dato che ci si serve di un escamotage visuale per darci contezza della potenza di questa città-carro armato: giocando con le dimensioni, opponendole perciò un’altra città, in scala 1:10 rispetto alla ben più avanzata Londra, che in queste prime sequenze braccherà la ben più modesta cittadina per, letteralmente, ingurgitarla. Metafora (eccola) di un imperialismo fagocitante, idrovora rispetto a tutto ciò in cui incappa – più avanti a lei viene opposta Shan Guo, utopia realizzata, esempio di un luogo in cui tutti sono i benvenuti, sebbene sia cinta non da un muro ma addirittura da una muraglia.
A Londra Hester incontra Tom (Robert Sheehan), un giovane che sta studiando gli eventi che hanno condotto il mondo a quello scenario, avvicinandosi pericolosamente alla verità. C’è di mezzo tale Thaddeus Valentine (Hugo Weaving), uno a cui la come sempre anonima e stupida massa ha dato piena fiducia al fine di essere condotti verso una sorta di paradiso in terra, che ovviamente coincide col dominio, da parte di Londra e per estensione della nuova Inghilterra, sul mondo intero (o quello che ne è rimasto). C’è tanto in Macchine Mortali che si presta non solo per farne un film, ma per farne addirittura uno significativo, tra riferimenti e rimandi a tutti i livelli, sia stilistici che di contenuto.
Su entrambi i fronti, tuttavia, il tutto si risolve in un’accozzaglia di elementi sconnessi che non trova in nessun caso un’amalgama. Troppo immediato il rimando a Star Wars, pur scremato di componenti chiave quale la Forza, ma in fondo effettivamente quella cosa lì si avverte eccome. Non dispiace, va detto, ché d’altra parte certi temi, certe vicende, ritornano sempre, a sua volta l’epopea di George Lucas frutto di un rimestare nel Mito. Nel lavoro di Christian Rivers manca forse l’elemento più importante, o la serie di elementi, ossia quelli che diano consistenza all’universo che viene mostrato. S’affanna, e non poco, Macchine Mortali a trovare la quadra, una propria, credibile Mitologia, restando di conseguenza un corpo senza scheletro, dunque deformato, bizzarro, di cui si possono tutt’al più apprezzare certi dettagli qualora isolati da tutto il resto – si pensi alla seconda metà del film, ambientata tra i cieli di una città sospesa in aria, tutt’altre suggestioni, che di certo non contrariano a priori.
Per esempio, ricollegandoci a quanto evidenziato sopra in relazione alle premesse, certi ingredienti narrativi si prestano non poco ad intuizioni visive notevoli, che qua e là a dire il vero emergono; sì, ma sono sprazzi, lampi estemporanei che si perdono nella pochezza generale di un prodotto lasciato macerare dentro allo stampino. È quantomeno antipatico quando il Fantasy o la Fantascienza non riescono a sublimare le proprie esasperazioni, volute e necessarie, che in ogni caso debbono essere votate a quella verità di fondo alla quale si vuole accedere per vie traverse, non bastando la mera realtà, una superficie sin troppo piana per poterci dire qualcosa. Succede allora che, malgrado l’apprezzabile ambizione, questa ci si ritorca contro. Sia chiaro, in questo caso non senza responsabilità da parte degli autori.
A Macchine Mortali manca proprio il respiro dell’opera che aspira ad essere, che doveva assolutamente essere, pena il non essere affatto. Carica com’è, necessitava un lavoro di cosmesi ben diverso, la sua stravaganza da filtrare. Ecco perché, quando assistiamo a certi sviluppi, classici nell’accezione deteriore del termine, le perplessità sono due volte più significative. Scadere infatti nella parodia involontaria, sia essa una linea di dialogo («fu allora che decisi che non avrei avuto più padroni», per dirne appena una, che chiaramente andrebbe contestualizzata), oppure un passo in avanti rispetto a come evolvono le circostanze, ebbene, siamo sempre lì, tutto è così monotono, sorprendentemente privo di spessore.
E no, non ci sta. Perché il taglio è proprio un altro, totalmente, così intriso di epica avventurosa, due ragazzi che, soli prima e con un manipolo di altre persone poi, debbono ribaltare l’esito apparentemente scontato di una civiltà, grande o piccola che sia, che vuole avere il sopravvento su tutte le altre, ponendosi ad un unica e sola entità a livello globale. Eh lo so, che ci posso fare se questa cosa qui ritorna? È talmente iscritta nell’idea alla base del racconto che non si può proprio evitare, pur non dicendoci, come già espresso, fino a che punto Macchine Mortali sia inadeguato a questa parabola in cui c’è dentro di tutto e di più, sfasata, incoerente. Insomma, un’occasione sprecata.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]
Macchine Mortali (Mortal Engines, USA/Nuova Zelanda, 2018) di Christian Rivers. Con Hugo Weaving, Hera Hilmar, Robert Sheehan, Jihae, Ronan Raftery, Leila George, Patrick Malahide, Stephen Lang, Colin Salmon, Frankie Adams e Joel Tobeck. Nelle nostre sale da giovedì 13 dicembre 2018.