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Noir in Festival 2018, vince Border: premi e considerazioni

Un altro Noir in Festival se ne va, sulla falsa riga degli ultimi due: segnali di piacevole e circostanziato mutamento che confermano l’impressione di una manifestazione di cui c’è bisogno, come di tutte quelle che prendono sul serio il discorso su generi e dintorni

pubblicato 10 Dicembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 14:21

È un Festival del Noir che va sempre più reinventandosi, cercando inevitabilmente di restare fedele a sé stesso. Un processo fisiologico, verrebbe da dire, al quale una manifestazione come questa non può in alcun modo sottrarsi, a tal punto è iscritta nelle premesse. L’unico paletto, se così lo si può definire, sta semmai nella sua specificità, che è quella di mantenere viva la pista dei generi, il suo studio così come la sua perpetuazione.

Un’ambizione non da poco, è vero, ma che poche rassegne possono perseguire, specie con riferimento al nostro Paese. Il Noir in Festival diventa perciò occasione, tra le altre cose, di metterci al corrente sullo stato della situazione, più un resoconto, un sunto relativo alle circostanze, piuttosto che il suggerire novità. Ché poi, è evidente, fare le pulci all’attualità porta in dote la possibilità d’individuare e magari proporre nuove traiettorie, ma questo mi pare un plus.

Premiando Border quale miglior film, dopo averlo portato in Concorso, la Giuria ha colto qualcosa che già a Cannes, lo scorso maggio, non pochi avevano messo in evidenza: certo realismo, stricto sensu, non basta più. Forse non è mai stato sufficiente, ma è innegabile che si venga da una stagione in cui, e parlo di percezione, il Fantasy era in qualche modo distrazione; così come altri generi, questi servivano per intrattenere, appunto deviare l’attenzione, senza dover troppo caricare lo spettatore di significati e implicazioni “nascoste”.

Peccato che il genere, grossomodo qualunque genere, rappresenta l’esatto contrario, facendosi per sua natura portatore di altre istanze, filtrate all’inverosimile proprio per cavare da ciò che di volta in volta racconta, dalla tematica o dalle tematiche alle quali si accosta quella verità altrimenti impenetrabile. Lo ho detto pure Igort (Igor Tuveri) nel bell’incontro tenutosi nella sfarzosa cornice della Sala Bianca presso il Teatro Sociale di Como: «la realtà non m’interessa, specie se attraverso di lei non posso raggiungere la verità».

Lo ha detto mentre spiegava il perché di certi espedienti illuminotecnici, l’uso delle luci un po’ “azzardato”, irreale appunto, rispetto al suo primo film da regista, ossia la trasposizione del suo 5 è il numero perfetto. Attinge dal cinema di Hong-Kong, che lui tanto ama, con Servillo e Buccirosso schiena contro schiena che sparano all’impazzata manco fossero diretti da John Woo, in una Napoli espressionista, barocca, che fa sfondo a una vicenda che parla, parola di Igort, di cavalieri che non salgono più a cavallo da troppo tempo, che un cavallo non ce l’hanno più avuto da allora.

Dall’Argentina, l’altro film premiato, El Angel, pure fa qualcosa di analogo: prende la cronaca, si serve del suo stampo ma poi ci disegna sopra tutt’altro. Non ci si appiattisce, come ho scritto in recensione, semplicemente la reintepreta, o per meglio dire, le dà un’altra direzione per amore di parlare di cose che stanno a cuore a chi l’ha scritto e diretto. Per questo sono poco sopportabili i paragoni, l’attinenza generale, quasi che lo scrupolo fosse la via maestra, il lavoro esaurirsi nel riportare dei fatti. Il genere non fa questo, non sempre, o comunque non necessariamente. Ad ogni modo, a Lorenzo Ferro e Chino Darin il Black Panther per la migliore interpretazione.

Per ultimo c’è Destroyer, il film in cui Nicole Kidman si mette in gioco e forse un po’ strafà, perché il suo è un personaggio al limite, qualcosa che la Kidman non aveva mai tentato, non così. A lei va la menzione speciale della giuria, proprio per essersi cimentata in questo ruolo atipico, ed esserne uscita effettivamente bene, nonostante tutto.

Al terzo anno consecutivo tra Como e Milano, il Noir, come accennato, si sta trasformando, senza appunto rinunciare a quella che chi ne sa chiama missione, comunque cangiante, a sua volta suscettibile di risistemazioni. È bello sapere che questa manifestazione resti in ascolto, pur con tutte le difficoltà e gli imprevisti del caso, che si traducono talvolta in limiti; che non sia sorda insomma certe sonorità, se possibile facendosi veicolo di taluni cortocircuiti interessanti. Il fatto stesso che due dei film premiati sia passati da Cannes, e dalla medesima sezione, è a suo modo indicativo di una tendenza, non nuova a dire il vero, che denota un’attenzione al genere, uno spazio che fino a qualche anno fa sembrava essere vagamente precluso, quali che fossero le ragioni.

Viene in mente un altro film in Concorso, Black is Beltza, meno affabulatore e fascinono di un BlacKkKlansman, ben più politicizzato nel senso di rifarsi a un’ideologia specifica, ma che per via della sua formula, l’animazione, c’interroga su certi modi e approcci. Non inedito il discorso, ma che nondimeno si rivela significativo, specie in un contesto, come quello europeo, in cui l’animazione fatica ancora ad uscire ed imporsi come in altri territori. Rispetto ai Festival si parla non di rado e a sproposito di coraggio, quando invece a fare la differenza è la curiosità. È quella che colma qualsivoglia gap, prima o dopo.