Noir in Festival 2018, El Angel, recensione: Ortega reinterpreta in chiave giocosa e sensuale la breve vicenda del giovane che scosse l’Argentina
Un fatto di cronaca che scosse l’Argentina dei primi anni ’70 si fa pretesto ai fini di un discorso, per quanto affatto elaborato, su pulsioni profonde e radicali
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Carlitos entra negli appartamenti, si guarda intorno, gira per le stanze, tocca cose, alcune le lascia, altre se le tiene. E poi balla. Nella prima scena di El Angel c’è pressoché tutto di questo giovane atipico, altro rispetto ai suoi coetanei. Non un disadattato, ma certamente un personaggio peculiare, oltre la morale. Nessuno è mai al di là della Morale, per così dire, senonché Carlitos, con quella faccia d’angelo, lui che di sé stesso dice di essere la «spia di Dio», il problema non se lo pone più di tanto: giusto o sbagliato non gli riguarda, l’importante è vivere a pieno il momento. Insomma, un profilo dei nostri giorni, con meno impegno in corpo e più spensieratezza.
Il film di Luis Ortega muove da un fatto di cronaca di cui si è molto discusso e si discute ancora in Argentina, ossia quello relativo al giovane Carlos Eduardo Robledo Puch, «l’angelo nero», che nel 1971 sconvolse l’opinione pubblica nazionale in Argentina per via di undici omicidi, una quarantina di furti e tre stupri. All’incirca. Ortega e gli altri due colleghi sceneggiatori tuttavia non si sono voluti appiattire sulla cronaca, piluccando dalla realtà dei fatti quanto serviva loro per creare un altro personaggio, diverso ancorché ispirato dal giovane boccoloso. Sì, di lui si diceva che somigliasse a Marilyn Monroe, e questa sua naturale indeterminatezza a livello estetico, la sua ambiguità sessuale, per nulla cercata, costruita, è un altro degli elementi che hanno contribuito al discorso intorno alla sua persona, dunque a ciò che ha fatto.
In El Angel tuttavia si opta per una chiave di lettura più soft, da cui senz’altro trapela in maniera nemmeno tanto sottile l’assurdità degli eventi e di ciò che Carlitos combinò in meno di un anno, lui nemmeno ventenne, ma lo si fa mediante il registro della commedia nera, a tinte tragiche perciò, senza rinunciare nemmeno al dramma. In questo senso un’operazione facile da decodificare, dunque da digerire, pronta perciò per il grande pubblico, che viene stimolato il giusto, senza astruse dissertazioni né i toni grevi di altri film sui serial killer che fin troppo presto perdono la bussola e si risolvono nella riproposizione, più o meno realistica, più o meno stilizzata, di un insieme di fatterelli.
Qui Ortega offre una sua variante, ossia un profilo inventato, che forse riconduce al vero, forse no, ma che nondimeno emana un suo fascino. Fascino distorto, è chiaro, perché pur sempre di uno psicopatico si sta parlando, sebbene a tratti il film tenda, consapevolmente o meno, a renderlo più umano, trovare un appiglio sotto quella coltre d’imprevedibilità che contraddistingue un personaggio così fuori di testa. C’è una giocosità di fondo che si rivela essere il procedimento più riuscito, sperimentato in fase di scrittura ovviamente, per cui anche noi si partecipa alle scorribande di Carlitos con quell’aria quasi spaesata, di chi si gode quanto gli accade, un po’ andandoselo a cercare, senza però forzare più di tanto.
Per lui tutto è gioco, ma nell’accezione più nobile del termine, che non vuol dire leggerezza: anzi, il gioco a cui si dà lo prende sul serio, e lo fa assaporandolo, cercando di estrarre fino all’ultima goccia di ciò che il momento ha da offrirgli. L’aspetto che rende tale processo interessante, è appunto la mancata facoltà di applicare alcun filtro, il non porsi limiti o scrupoli di alcun tipo; o perché disinteressato, oppure perché incapace, inutile, forse addirittura deleterio provare a rispondere a questa implicita domanda, proprio perché parte del mistero relativo a chi o cosa sia realmente Carlos.
Sebbene Almodovar sia intervenuto in un secondo momento in qualità di produttore, quando oramai la sceneggiatura era bella che ultimata, non mancano certi echi, ossia per esempio l’attenzione che si traduce in fascino per il corpo maschile (Carlitos in parecchie scene è a dorso nudo), la tragicità velata di humor nell’accostarsi a passaggi che suggeriscono tutt’altro, quella sensualità di fondo che allude senza dire mai troppo, quanto basta per farsi capire. D’altronde l’incontro con Ramon rappresenta per Carlitos un punto di svolta: c’è infatti un prima e un dopo. Prima, la disillusione, l’incoscienza, dopo il confronto con la realtà, l’infrangersi delle aspettative, il capire, per la prima volta, che il mondo non è come ce lo figuriamo quando ancora ci limitiamo a costruircelo nella nostra testolina di piccoli uomini o piccole donne. Insomma, di fatto il coming of age di un giovanne criminale, reinterpreato in chiave giocosa e sensuale, senza eccellere ma senza nemmeno cadute (che è era il rischio maggiore).
Tuttavia Ortega non vuole indulgere nemmeno su questa trama nella trama ulteriore, quantunque il suo peso nell’economia della narrazione sia evidente. Il rapporto, mai esplicito né davvero esplicitato, tra i due giovani è lì per essere percepito, scrutato, senza abusi o indebite intromissioni; certo è che sia l’uno che l’altro cambiano, ciascuno rispondendo a proprio modo a tale mutamento, sebbene a destare maggiore curiosità, è inevitabile, sia l’escalation di Carlitos, il suo restare “fedele” a sé stesso eppure totalmente diverso se pensiamo a come lo troviamo all’inizio e come lo lasciamo alla fine. Una chiusa nemmeno poi così amara, speculare al prologo, che non manca di quel briciolo di sagace ironia che dice molto più di qualsivoglia sentenza, in formato ridotto o meno.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
El Angel (Argentina/Spagna, 2018) di Luis Ortega. Con Cecilia Roth, Chino Darín, Luis Gnecco, Malena Villa, Peter Lanzani, Mercedes Morán, Daniel Fanego, Lorenzo Ferro e William Prociuk.