Torino 2018, Santiago, Italia, recensione: Nanni Moretti torna all’impegno civico
11 settembre 1973, in Cile si registra il riuscito golpe di Augusto Pinochet. Nanni Moretti ripercorre sommariamente quei giorni, quel periodo, e come, en passant, vi si relazionò il governo italiano. Peccato che in Santiago, Italia cronaca al passato e analogie al presente non camminino di pari passo
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Nanni Moretti oramai da tempo ha scelto di centellinare pronunciamenti di alcun tipo, con particolare riferimento alla politica; archiviata la stagione girotondina, Moretti ha preferito per lo più delegare ai propri film ciò che aveva da dire su una data fattispecie, da allora con all’attivo appena tre film, di cui l’ultimo intimo quanto basta per non prestarsi a chissà quale proclama. Santiago, Italia, a suo modo, è un po’ la sua chiamata alle armi, un monito verso la collettività ad impegnarsi, a tornare a combattere la giusta battaglia. Se da un lato, tuttavia, se ne apprezzano le intenzioni, altro discorso vale in merito all’argomentare.
Ad un certo punto è proprio Moretti a irrompere, di persona, allorché uno dei suoi intervistati, che sta scontando una pena per aver collaborato al golpe del ’73 in Cile, si lamenta perché sperava che l’intervista sarebbe stata imparziale. Di tutta risposta, il regista ribatte categorico: «io non sono imparziale». Ogni film di Moretti rimane per una frase, un’uscita, una linea di dialogo che sta in luogo del film stesso, rievocandolo e rievocandone temi e suggestioni; c’è da scommettere che il suo «io non sono imparziale» resterà. No, Moretti non è imparziale, e chi lo sa se questa sua laconica precisazione, onesta quantunque non priva di una certa ironia, non sia lì per mettere le mani avanti.
Santiago, Italia parte infatti ripercorrendo schematicamente gli eventi che hanno preceduto e seguito l’11 settembre 1973, quando il governo democraticamente eletto di Allende fu rovesciato dai militari, non senza l’aiuto degli USA, i quali, più che per il Cile, temevano per le ripercussioni in Europa, specie in quei Paesi in cui il Partito Comunista risultava in crescita. Attraverso le testimonianze di persone che c’erano, chi dovette andare via e chi restò, è tutto un rievocare un periodo a più riprese definito nella maniera più semplice e immediata che ci sia: bello. Era bello, infatti, quando le idee valevano qualcosa e cambiavano le cose; quando di questo qualcosa ci si sentiva parte, insieme, e insieme si credeva di impegnarsi non per qualcuno ma per tutti. È il fascino innegabile di quel vento che soffiò nel dopoguerra, quando temi come «Giustizia sociale» e «tutela dei più deboli» divennero per tanti un imperativo assoluto.
Moretti cerca di non cedere troppo a una delle pratiche che meno lo appassionano, ossia il parlare per frasi fatte, l’incensare per l’incensare, preferendogli il un linguaggio di solito più diretto. Eppure è inevitabile; quasi s’incazza, bonariamente, quando un altro dei suoi intervistati, ricordando un cardinale che tanto aveva fatto per opporsi al Regime, comincia a piangere: «non sono cattolico, anzi, mi dichiaro ateo. Ma chi merita rispetto lo merita a prescindere». Parole che forse Moretti non avrebbe mai pronunciato, ma questa parte non è la sua; appartiene a chi visse quei tragici momenti, a chi di punto in bianco passò dal massimo entusiasmo allo sconforto più totale, tra abusi e torture tipici dei contesti dittatoriali.
Ma il sottotesto è lì, tutt’altro che nascosto, anzi, per certi versi addirittura prioritario. Un po’ come la Beckermann, che rievoca Waldheim e la sua infelice parabola al fine di metterci in guardia al presente, anche Moretti opera su questa falsa riga, adombrando analogie tra certi umori del passato e quelli attuali. La Beckermann non ha bisogno di dire «sono di parte», perché lo dà per scontato, eppure è diretta, non ci ricama su, e chiama le cose col proprio nome, così come si sente di dirle: perciò l’ondata di populismo che imperversa non solo in Europa ma nel mondo intero porta in dote elementi e presupposti che ciclicamente a suo avviso ritornano, tra cui un certo antisemitismo di fondo. Che si sia o meno d’accordo, ce lo dice in maniera piuttosto eloquente, dopodiché a ciascuno trarre le sue conclusioni.
Moretti, che comunque non va per il sottile, chiude il suo documentario proprio sulle parole di un cileno che vive in Italia, secondo cui ciò a cui sta assistendo in questo periodo è molto simile a quanto si poteva percepire ai tempi di Pinochet. In poche parole si vuole così liquidare il fenomeno cosiddetto populista, quasi sovrapponendolo al concetto alla base dell’individualismo, che a suo modo contribuisce, con un feedback reciproco, allo sfrenato consumismo in cui siamo immersi. È una chiusa troppo sbrigativa, uno statement forte buttato lì per suggerire, facendo appunto il giro largo, che quanto sta avvenendo in questi mesi non può che condurci verso un regime oppressivo, disumano, dunque di Destra.
Non discuto le conclusioni, ché non sta a questo scritto farlo, solo il percorso logico e argomentativo attraverso cui vi si perviene: debole, forzato, per certi aspetti sciatto, in conflitto con l’umanità che invece Santiago, Italia in alcuni punti riesce a trasmettere, quando l’allusione è uno strumento che viene messo da parte, e il racconto di prima mano si rivela molto più utile e sensato. «Non sono imparziale», e Moretti c’invita a nostra volta a non esserlo, o quantomeno smettere di esserlo. Ma questa sua esortazione, come detto, mossa senz’altro da buone intenzioni, presuppone una conoscenza a fronte di un discernimento che non ci sono, né l’uno né l’altro.
Succede limitatamente alle opere più deboli il dare per scontato, il non esplorare alla radice ciò che ci muove verso una direzione piuttosto che un’altra. In un momento di così profonda confusione, ribadire che una cosa è giusta solo perché lo è non basta; sì, magari conforta noi e coloro che la pensano come noi, convincendoci che chi è contro, in quanto dalla parte sbagliata, è un nemico da combattere. Nulla di strano, anzi, non c’è dinamica più umana di questa. In un’epoca in cui la verità ce la si crea, e si è convinti che sia così, un documentario, così come un film di finzione, un saggio, un romanzo, debbono farsi carico di partire dalle basi, e trovare il modo di farlo senza appesantire più di tanto.
Difficilissimo, ma si passa da lì, non dai proclami, “giusti” per quanto possano sembrare, se ciò che sta a cuore è che il singolo capisca. Che capisca che la Giustizia non è un concetto relativo, che ciascuno sceglie di vivere, credere e pensare come gli pare ma che, nondimeno, la Verità è una e una soltanto, impossibile da piegare, dissimulare, abbellire o imbellettare attraverso comizi, ruspe, iniziative con le magliette, sit-in, cortei, campagne che fomentano qualsivoglia forma di paura e chi più ne ha più ne metta. Moretti ha pressoché incidentalmente il merito di richiamare noi tutti a tale necessità, ossia di ripensare ciò che è vero e ciò che è giusto, non per scoprirlo nel senso di (ri)costruirlo, bensì di conoscerlo e aderirvi. Lo si fa attingendo ad un’umanità, o comunque a quella facoltà che è insita in tutti e ciascuno, quale che sia la sua definizione, che non tollera l’essere piegata ad altro se non al Bene stesso.
Il perdono è affare cristiano, tutt’al più di Dio, perciò c’è da capire chi non è disposto a condonare certe azioni turpi, rese ancora più turpi dal loro reiterarsi nel tempo. Ma stiamo attenti alle etichette, ai nessi forzati, ed in generale a quella faciloneria che ci sta portando esattamente dall’altra parte rispetto a dove dovremmo andare. Santiago, Italia fa leva sul cittadino, richiamandolo in quanto tale all’ordine, cercando di persuaderlo a difendere un sistema d’idee ancora prima che una o più persone, in gruppo o meno. Un approccio che si rivela insufficiente, non importa fino a che punto ci accarezzi.
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Santiago, Italia (Italia, 2018), di Nanni Moretti. Festa Mobile.