Torino 2018, Atlas, recensione: dramma sociale che vira al noir nella Germania di questi anni
Dalla Germania un noir che muove dal sociale per raccontare la storia di un uomo apparentemente banale e del suo possibile riscatto
Walter si allena duramente, specie in considerazione dell’età che, lui oramai sessantenne. Glielo impone il lavoro, provante sia fisicamente che psicologicamente, visto che fa il traslocatore: il suo capo però, tale Roland, è uno di quelli invischiati in giri loschi, per cui l’attività si traduce in sgombero forzato. Uno di questi inquilini, Jan, un giorno si rifiuta risolutamente: ha capito il giochino, grazie al quale lo stabile è stato svuotato per poi essere rivenduto tre volte tanto. Non ci sta, con moglie e figlio resiste, come può, finché può, ma le pressioni sono troppe.
Atlas è un noir molto convenzionale nell’intreccio, abbastanza prevedibile da un certo punto in avanti, con un finale che farà forse storcere un po’ il naso ad alcuni, tendenzialmente “hollywoodiano” (di più non è opportuno dire). C’è un momento in cui la moralità di Walter, che in qualche modo è legato a quell’inquilino, sfuma, diventando ambigua; è forse l’unico momento in cui il film ci coglie vagamente di sorpresa, attimi in cui però ci riesce persino bene. Classico personaggio con un passato pesante alle spalle, che aleggia per tutto il film, fungendo da catalizzatore, poiché Atlas in fondo è questa parabola di redenzione in cui chi ne in cerca viene sottoposto a varie prove.
Inizialmente muove da una specie di realismo sociale, una matrice che nel cinema tedesco contemporaneo si riscontra non di rado, quale che siano poi il genere o le declinazioni. Questo perché sulla prima parte del film grava proprio quell’aria vagamente neorealista, concentrandosi su alcune persone che fanno un lavoro tutt’altro che edificante, e che si ritrovano a trascorrere la Vigilia di Natale presso la sede della società, con Roland che li minaccia di cacciarli a calci. Poi però Atlas prende una traiettoria diversa, quando lo sfratto tocca appunto a Jan, e quest’ultimo finisce proprio col creare problemi, dato che coinvolge le autorità.
Da lì è tutta una spirale in cui per forza di cose il vero carattere di Walter ha da venire fuori, così come quel confronto con due personaggi (di cui uno è appunto Jan), attraverso cui di fatto passa molto. In particolare quello con la minaccia, la persona che insomma vuole mettere a tacere con le cattive Jan, si rivela non soltanto snodo essenziale per la prosecuzione degli eventi, ma anche rilevante poiché lì Atlas raggiunge il picco, quella tensione a conti fatti alta nel corso della quale si aspetta da un momento all’altro che la pentola esploda.
La tenuta resta quella che si rifà ad un certo realismo, altro tratto tipo dei film tedeschi recenti, che appunto si vogliono sempre immersi nella quotidianità, laddove possibile addirittura con un taglio da documentario; una direzione che Atlas non sempre mantiene, va detto, o perché in certi passaggi manca quel pizzico di coraggio in più, o perché l’idea in fondo era un’altra. Sarà anche per questo che di un progetto simile, così per com’è, è facile immaginarne un remake a stelle e strisce, anch’esso telefonato, non solo perché di storie così se ne sono raccontate e se ne raccontano parecchie.
Rainer Bock, l’attore che interpreta Walter, diventa allora il valore aggiunto: taciturno, è la sua evoluzione (o involuzione, a seconda della prospettiva) a tenerci dentro al film, la curiosità di scoprirlo, capire chi sia realmente più che conoscere gli antefatti che lo hanno condotto sin lì. In parte perché, ripeto, lo sviluppo da un certo punto in avanti è piuttosto prevedibile, in seconda battuta in virtù del fatto che l’aura che lo circonda è quella di uno in procinto di trasformarsi da un momento all’altro, giusto il tempo che qualcuno si prenda la briga di svegliare il can che dorme. E siccome è questo l’unico vero arco interessante del film, avere un personaggio credibile aiuta non poco. Il resto è un ritratto familistico dalle dinamiche forse a tratti un po’ forzate ma che rimestano dignitosamente in quella miniera che è il rapporto padre-figlio, malgrado si abbia l’impressione che contenga qualche finale di troppo.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]
Atlas (Germania, 2018) di David Nawrath. Con Rainer Bock, Albrecht Schuch, Uwe Preuss, Thorsten Merten, Roman Kanonik e Nina Gummich. Concorso.