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Anatomia del miracolo, recensione: i limiti dello sguardo tra Fede e devozione

Pratiche esteriori e fede interiore, due sfere che non sempre si sovrappongono come dovrebbero. Nondimeno Anatomia del miracolo non riesce a cogliere granché malgrado l’approccio antropologico, l’unico concepibile a certe condizioni

pubblicato 12 Novembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 15:00

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Giusy è costretta su una sedia a rotelle dalla nascita. E non ci vede. Non è solo lei la protagonista di questa storia ma è fin troppo chiaro che Alessandra Celesia sia particolarmente attratta dalla sua di parabola. Una delle tre. In un’altra, Fabiana, transessuale, trascorre il tempo con delle bambine del quartiere che le sono oltremodo affezionate; in un’altra ancora Sue, coreana di stanza a Napoli, appare letteralmente abbagliata dalla grandezza nonché dalla complessità di un ambiente del genere, così alieno da lei e dalle sue radici.

Ciò che accomuna questi tre archi è una cosa, ossia la Madonna dell’Arco, il cui Santuario si trova a Sant’Anastasia, appena fuori Napoli. Giusy ci abita davanti, all’inizio a riguardo si mostra quasi rassegnata a tal proposito, come a dire che la prossimità sia la prima delle ragioni per quella sua Fede. Anatomia del miracolo tuttavia non è, appunto, un film sulla Fede; anzi, leggendolo da questo punto di vista ne uscirebbe con le ossa rotte. No, questo lavoro della Celesia può e deve semmai trovare la propria ratio nel modo in cui avvicina queste tre persone, diversissime tra loro.

In ambito documentaristico si rischia spesso di dare un giudizio sull’oggetto prima ancora che sullo sguardo, errore comprensibile, forse addirittura accettabile quando si tratta di finzione; nondimeno errore, non ammissibile a priori, come appena lasciato intendere, rispetto al documentario. In tal senso, dalla visione di Anatomia del miracolo si esce combattuti, divisi tra lo spessore degli intenti, che sta poi nella curiosità, fino a un certo punto anche quasi la discrezione nel delineare certi profili, ed un risultato che vira su qualcos’altro, magari involontario e forse proprio per questo goffo.

Un esempio. C’è una scena, la stessa dell’immagine (qui sotto), in cui Giusy ed una donna, anche lei su una sedia a rotelle, discutono sull’efficacia della preghiera. La signora è dura, e non risparmia la critica alla giovane, puntando il dito in maniera per certi versi inopportuna sulla sua mancanza di Fede, l’aver chiesto alla Madonna ma fino a un certo punto; secondo lei vuol dire che a Giusy sta bene così, perché la forza si trova solo nella disperazione, e se non si è disperati inutile scommettere. Un giudizio tranchant, se non ignorante quantomeno superficiale, ma che merita tutta l’attenzione di questo mondo.

Quando Giusy risponde che sì, forse è vero che a lei sta bene così, che ci ha pensato possa essere stato così, ma che nondimeno le sfugge il senso di certe cose, la signora, di nuovo, incalza che il Male si spiega solo col Peccato. Anche qui, bene l’essere diretti, posto che però si conosca a dovere ciò di cui si sta parlando. Se non lo si sa, o non si dà modo di spiegare, avviene quanto la Celesia ci mostra nel prosieguo della scena: Giusy si dice ancora una volta concorde, tuttavia non capisce quale peccato abbia da espiare lei, che è in quelle condizioni dalla nascita («capisco chi fa incidenti…»). Al che assistiamo a un taglio di montaggio netto, un’accettata proprio, con l’interlocutrice di Giusy che si allontana sullo sfondo fuori fuoco.

È questo un classico esempio di Estetica che si fa Etica, ed il giudizio della regista qui a tal punto diventa soverchiante, risolutorio, da stonare rispetto a tutto ciò che si è visto fino a quel momento e si vedrà fino quasi alla fine, quando con altrettanta incertezza oppone una chiusa troppo facilona e confortante rispetto soprattutto ai dieci minuti che l’hanno preceduta: una sfilata di gente che, con quella teatralità tipica di certo Meridione, si reca dalla Vergine per chiedere una grazia, un passaggio su cui la regista indugia un attimo di troppo, quanto le serve per dare adito alla tesi (sì, perché di questo si tratta) secondo cui è più genuina e sincera Giusy nella sua accettazione ragionata che coloro che si lasciano andare a certi exploit.

Ora, poco rileva che le intenzioni fossero realmente queste, tanto più che va dato atto alla Celesia per il garbo con cui rivolge la macchina da presa su Fabiana e Sue, perciò non si può parlare di mancanza di tatto o interesse. Dove resta incastrata la regista è nell’esposizione, nel modo in cui gestisce i tre segmenti, questo passaggio dallo stupore di una straniera che rischia di venire risucchiata da un contesto del genere, senza chiaramente alcun giudizio di merito a riguardo, ai dubbi di una ragazza che si pone domande difficilissime, passando per un altro profilo ancora, quello di Fabiana, che forse cerca quel riscatto che solo una presunta normalità può darle, quella di un quotidiano vissuto in maniera ordinaria, senza troppi fronzoli o arzigogolate discussioni di stampo ideologico.

Dinanzi a cotanti argomenti, Anatomia del miracolo si rivela modesto, non del tutto inefficace, ma troppo poco per potervi tenere testa. L’afflato antropologico in qualche modo nasconde questa strutturale impossibilità, rendendo il tutto accessibile, a suo modo “servibile” in relazione a un discorso che va ripreso costantemente e in merito al quale qualche piccolo spunto Alessandra Celesia lo fornisce. Eppure non basta, specie alla luce di certi scivoloni troppo plateali per passarci sopra.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Anatomia del miracolo (Italia/Francia, 2017) di Alessandra Celesia. Un film con Fabiana Matarese, Giusy Orbinato e Sue Song. Nelle nostre sale da martedì 13 novembre 2018.