The Predator: recensione in anteprima
Dalla decisa virata alla commedia al voler essere troppe cose, perciò nessuna di queste. Malgrado il sovraccarico, per lo più inefficiente, The Predator riesce anche a concedersi qua e là qualche momento di sincero divertimento, pur assurgendo a prova emblematica di (quasi) tutto ciò che non funziona nell’ambito di un fenomeno ben più ampio
Recandosi in sala sarebbe bello non doversi porre chissà quali domande preventive sulla natura del progetto, o meglio ancora il suo percorso, ché tanto alla fine ciò che davvero conta è ciò che ci accingiamo a vedere. Tuttavia le beghe di questa quarta iterazione di Predator hanno praticamente doppiato la promozione, perciò si sa quasi più della complessa gestazione che altro. Al timone Shane Black, scelta bizzarra, sulla carta accattivante, perché significa che si vuole imprimere una sorta di svolta, mischiare cose che a priori sembrano non trovarsi. Risultato? Non si trovano. O per lo meno, non come e quanto avrebbero potuto e dovuto.
Quinn McKenna (Boyd Holbrook) è un cecchino che ha la ventura di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato: mentre è sul campo un’astronave spaziale si schianta a pochi passi da dove è appostato. Qui viene a contatto con il pilota di quello strano oggetto arrivato dal cielo, ossia un Predator, che nel frattempo fa piazza pulita. Non solo tuttavia McKenna riesce ad uscirne vivo, bensì si appropria persino di alcuni gadget alieni, che subito spedisce a casa al figlio autistico, Rory. Il governo, chiaramente, scopre di questo incidente e subito invia tale Will Traeger (Sterling K. Brown) per dare la caccia al Predator, passando anzitutto da McKenna e finendo con l’incriminarlo per la morte dei suoi compagni proprio in occasione di quel contatto con l’alieno. È in questo passaggio che il cecchino, oramai infamato, conosce un gruppo di oramai ex-colleghi a loro volta incriminati per qualcosa, ma soprattutto fuori di testa, clinicamente proprio. A loro si aggiunge un’avvenente biologa, dapprima convocata per collaborare col governo, salvo poi, in modo più o meno rocambolesco, finire con l’allearsi con gli outcast di McKenna.
Lascia perplessi il modo in cui The Predator è tante cose eppure nessuna di queste. Classico esempio di prodotto passato al vaglio di troppe teste, ciascuna con l’intenzione di apportare una seppur piccola modifica, laddove non di stravolgerlo. Voglio dire, se scegli Shane Black sai cosa ti aspetta, il suo curriculum parla chiaro; infatti quella che doveva essere probabilmente la scommessa più corroborante, almeno agli occhi di chi scrive, stava proprio in questa virata pseudo-comedy, capire come sarebbe stata gestita un’operazione così delicata, e per questo Black era per certi versi tra i più indicati: addio dunque a quel senso di minaccia incombente, quel costruire un po’ per volta, accumulando tensione; spazio ai toni leggeri, lavorando per lo più su picchi estemporanei. Il guaio, ad ogni buon conto, non è che da un certo punto in avanti accadano cose assurde, bensì che l’intero film non lo sia abbastanza, assurdo.
Non si può infatti fare le pulci a certi singoli passaggi, quantunque forzati, in sé e per sé. Il problema sta semmai nella direzione, o per meglio dire, nell’incertezza a tal riguardo: in qualche modo emerge che per Black lì in mezzo non vi sia nulla o quasi da prendere sul serio, eppure è come se una vocina, non martellante ma ugualmente fastidiosa, ci ripetesse a più riprese che sì, il taglio non è drammatico, anzi, però sforzatevi qua e là di crederlo. Dispiace prendere atto di un risultato così confuso, un film che non si capisce bene cosa intenda essere e che perciò si dilegua, sfugge. Ora volano teste mozzate, ora si fanno battute di pessimo gusto, ora ancora la biologa di cui sopra si lascia correre da un dirupo sulle spalle di un Predator (va da sé, imbracciando un fucile). E dire che tale “indecifrabilità” poteva a suo modo essere una virtù anziché un vizio.
Il tutto, basandosi su una storia che, ridotta ai minimi termini, riguarda il rapporto tra un padre assente e un figlio che a suo modo lo idolatra, mentre il piccolo viene bullizzato ma soprattutto “non capito” per via di questa forma di autismo di cui soffre. The Predator è infatti non uno bensì più buddy-movie, genere che Shane Black bazzica con alterne fortune da sempre, ed infatti pure questo è concepito per muoversi all’interno di quel territorio. In un’epoca in cui oramai il processo di demitizzazione, non di rado dissacrante anche e soprattutto interno al cinema, si è quasi oramai del tutto consumato, non dovrebbe fare specie che un brand-non-brand come questo rimanga vittima della medesima dinamica. Eppure là fuori c’è chi si dirà pronto ad indire una guerra di religione affinché un sequel così avulso non tanto dalla saga, comunque di per sé alquanto eterogenea, ma dall’idea che oramai ci siamo fatti, non avrebbe dovuto avere cittadinanza a priori – scossi magari, non a torto, in particolare dai cross-over con Alien.
Poco sopra ho descritto questo Predator come un film confuso, aggettivo che va in ogni caso contestualizzato. Ci sono film che è possibile definire “confusi” perché pensati male e realizzati ancora peggio, senza però delle ragioni così profonde che “giustifichino” appunto tale confusione, se non magari, banalmente, l’averci capito poco. Qui un’idea c’è, c’è eccome, è solo che funziona male; non saprei dire fino a che punto sia così perché proprio sbagliata a priori, o perché a mancare sia stato il giusto modo attraverso il quale dargli corpo. Lo conferma il fatto che, malgrado certa sgangheratezza di fondo, il lavoro di Black diverta, in alcuni punti faccia persino sorridere, sebbene manchi in maniera anche troppo palese di quella coerenza interna su cui sta o cade tutto.
Insomma, The Predator è espressione, ancora una volta, di un conflitto tra più posizioni, non tutte nobili, anche per questo non tutte ugualmente sane. La sua apparente mediocrità sta perciò nel limbo che è stato imposto al progetto, in cui regista da una parte e qualcun altro (produttore?) dall’altra remano in direzioni opposte, perciò contro la resa del film stesso. Il risultato, a sua volta ambiguo in quanto non è possibile stabilire con certezza a cosa aspirassero Black e Fred Dekker (insieme nell’87, anno in cui usciva il primo Predator, scrissero una commedia horror, The Monster Squad), è una sorta di parodia, non tanto su Predator ma su tutto ciò che gli orbita attorno, compreso ciò che è diventato nell’immaginario di tanti. È questa sorta di lesa maestà che a molti lo renderà ancora più indigesto, sebbene Black a mio parere tocchi concettualmente i tasti giusti, per quanto ciò che intende fare possa sembrare discutibile.
Si alludeva prima all’epoca. Beh, questo quarto capitolo, che paga parecchio anche il suo essere un seguito, è figlio del proprio tempo, né può essere diversamente. A dispetto infatti del tono grottesco, a tratti maldestramente comico, i Predator (anche a ‘sto giro non ce n’è di un solo tipo), al contrario, sono estremamente seri, laddove, per esempio in Predator 2, il film era più serio mentre l’alieno si concedeva uscite iconiche come questa. Lascia il tempo che trova, tuttavia, l’appunto per cui, date le condizioni, sarebbe stato opportuno non chiamarlo Predator: ma questo film esiste ed è così com’è proprio perché ha questa etichetta appiccicata addosso. Se, prima ancora che un capitolo debole della saga, si tratta proprio del film non convincente di cui si è scritto sinora, ebbene, ciò accade proprio in ragione del fatto che vi sono delle aspettative da tutte le parti, sia da parte di chi il progetto lo ha condotto, sia da parte nostra che ne siamo i destinatari.
Sarà pure beffardo, ma oggetti come questo The Predator finiscono con l’essere espressione di fenomeni ben più ampi, e non può essere diversamente. Cavalcare la nostalgia non basta più, certi riferimenti si sono fatti ingombranti e in un mondo che vive l’equivoco Stranger Things per quello che è solo in parte (ossia un’ode agli ’80), si avverte come mai negli ultimi vent’anni la necessità di emanciparsi, scendere dalle spalle di questi giganti. Qualche tempo fa, per dirne una, qualcuno si chiedeva tra le righe come mai non sia stato possibile, e non sia possibile tuttora, replicare un fenomeno come The Dark Knight.
Non per niente il film sul Joker lo dirige colui che si è imposto con Una notte da leoni. Per carità, Todd Phillips magari alla fine conferirà un tono serioso, forse addirittura “malato” alla sua variante sul Joker, ma il punto è che per primi certi produttori a Hollywood ritengono che l’unico modo per stabilire un contatto con certe grandi opere del passato, certi riferimenti, sia quello di non prendersi affatto sul serio, fare sorridere se non addirittura ridere. Quasi ad esorcizzare una presunta inadeguatezza, un’implicita ammissione secondo la quale oggi non ci si sente all’altezza di (ri)creare qualcosa di uguale portata. Non è il desiderio di vivere di riflesso a quanto c’è stato, se non in ottica commerciale, quanto la scomoda consapevolezza che per il momento non resta altro che ironizzare su questa incapacità, in maniera non tanto diversa da come noi italiani guardiamo all’Italia che fu, quella appunto dei “grandi”.
E nel Predator secondo Shane Black ci sono dei momenti rivelatori in tal senso, siano esse singole scene, tipo quando Rory manifesta al padre il proprio rammarico per non essere ciò che quest’ultimo avrebbe voluto, al che Quinn risponde di non dolersene, dato che nemmeno lui è diventato ciò che avrebbe voluto da piccolo. Oppure tutta la lunga retorica sugli outcast, su cui è imperniato lo sviluppo di buona parte del film, scandito da questi siparietti, alcuni spassosi, altri meno, da cui comunque emerge che i veri eroi (all’americana) sono dei pazzi, difettosi, non per nulla scartati dal sistema (i loonies). Il feticismo del gadget, parzialmente presente nei precedenti capitoli ma qui inevitabilmente più spinto, specie alla luce dell’epilogo, che dà adito ad una traiettoria a suo modo epocale internamente alla saga, o a quello che potrebbe diventare. La sottotraccia ambientalista, col rimando gettato quasi a caso al global warming, elemento che però dovrebbe avere una certa valenza, visto che spiega perché, di nuovo, i Predator vengono a farci visita. I cani Predator, ridotti a simpatiche macchiette, tanto che, CGI a parte, rappresentano forse l’intuizione più felice, e solo per il loro potenziale comico (ho riso tanto grazie ad uno di loro, e in più occasioni).
Tanta carne al fuoco, perciò, a fronte di una sceneggiatura che evidentemente si voleva di rottura, sebbene, come in parte accennato, ciascun Predator abbia sempre camminato un po’ per conto suo, non importa fino a che punto si percepisca parte di una saga – qui stesso le citazioni, anche piuttosto esplicite, non mancano. Non mi pare così campato in aria, perciò, che si possa considerare questo quarto capitolo un punto di non ritorno, se non altro perché di recente nessuna operazione analoga a questa ha manifestato in maniera altrettanto vivida le complessità di un processo oramai al capolinea, quantomeno secondo le formule sin qui impiegate. Ancora più beffardo in quanto The Predator poteva, diversamente, invertire tale tendenza, proprio per questo suo porsi in aperto contrasto. Sì, forse in un primo momento lo si è pensato, voluto. Peccato ci abbiano ripensato un attimo dopo.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
The Predator (USA, 2018) di Shane Black. Con Yvonne Strahovski, Olivia Munn, Jacob Tremblay, Sterling K. Brown, Lochlyn Munro, Thomas Jane, Boyd Holbrook, Jake Busey e Keegan Michael Key. Nelle nostre sale da giovedì 11 ottobre 2018.