UCI Cinemas Campi Bisenzio: Cineblog ha testato per voi la nuova esperienza Luxe
Sale quasi dimezzate ma molto più confortevoli, maggiore attenzione su cibo e bevande, in uno spazio rivisitato. La nuova esperienza Luxe di UCI Cinemas potrebbe dirci qualcosa sul concetto di sala che verrà
Firenze, ore 11 o giù di lì di giovedì 27 settembre. A Campi Bisenzio nel giro di un’ora si terrà la presentazione del rinnovato complesso UCI Cinemas che, di fatto, è comunque tornato operativo circa un mese fa. Non tutte le sedici sale sono già operative, nove sì; per le altre pare tocchi attendere fino all’8 novembre. Uno in questo periodo non sa come vestirsi, perciò esco da casa aspettandomi i 18/20 gradi di cui al meteo, anche se in realtà immagino che nel corso della giornata riscalderà; mi frega poco, vado ripetendomi, tanto sarò per lo più in sala, oppure in treno.
Dicevo che sono appena arrivato a Santa Maria Novella, treno in orario. Con un collega ci si mette in coda per un taxi, ché in mezz’oretta scarsa si arriva. Lungo il tragitto parliamo di cinema, non però nel senso che è lecito supporre: parliamo di sale, di come vanno le cose dalle nostre parti, Milano anzitutto, tra la chiusura dell’Apollo, l’aver lasciato praticamente scoperta un’area della città, il pieno centro, che con l’eventuale ridimensionamento/chiusura del comunque discutibile Odeon in Via Santa Radegonda resterà pressoché sprovvista di sale (il che è vero in parte, dato che Eliseo ed Arlecchino sono comunque lì). È un po’ un modo per entrare nel mood di quanto ci appresteremo a sperimentare nelle ore successive, circa la cui esperienza siamo grossomodo già stati istruiti: qui verrete a testare non tanto un nuovo modo di vedere, quanto una nuova proposta sul vivere l’andare al cinema.
La differenza non è infatti sottile, per niente. Appena entrati all’UCI Cinemas di Campi Bisenzio si avverte quell’aria, sebbene non l’odore, dato che qualche settimana dall’apertura è passata, di un ambiente nuovo, “ricostruito” per l’appunto. Sarebbe questa la parte dello scritto in cui un architetto saprebbe destreggiarsi meglio, illustrandovi dettagli che a noi magari sfuggono, col possibile effetto tuttavia di annoiarvi. Di primo acchito non ci sono differenze sostanziali rispetto a un multisala ordinario, fatte salve le peculiarità dell’edificio specifico, tra spazi e disposizione delle varie aree. Un progetto che ha un nome, individuato nel termine Luxe. Non ci si faccia fuorviare dalla denominazione, che sembra rimandare al concetto di lusso; come si capirà nei capoversi che seguono, l’idea di UCI, al contrario, è molto più “popolare” di quello che sembra.
Anziché infatti soffermarmi più di tanto sulla struttura in sé, che può avere un interesse marginale, o comunque circoscritto a chi, di fatto, ha concretamente modo di mettervi piede, insomma, chi vive in zona, è sul concept che vale la pena spendere qualche parola. Ovviamente non manco di approntare un seppur breve discorso in merito a ciò che un’iniziativa del genere comporta, o per meglio dire, di cosa è sostanzialmente espressione, cosa ha spinto una realtà come UCI Cinemas a puntare forte su un’idea di questo tipo.
Guardando alla grande ala ristoro, situata immediatamente dopo l’immancabile atrio, se è opportuno definirlo tale, in cui troviamo sostanzialmente solo i botteghini, si nota subito una cosa: pochissimi posti a sedere. Da piccolo, quando frequentavo il negozietto di videogiochi a cui debbo parte della mia formazione in merito a svariate forme espressive, grazie specialmente alla trasversalità anagrafica di chi bazzicava più o meno regolarmente quel posto, ebbene, in quel periodo capitava di chiedersi come sarebbe stato avere a disposizione uno spazio più ampio, al chiuso possibilmente, anziché stare sul marciapiede o peggio per strada, dato che il locale era grande all’incirca 20 metri quadri. E si lavorava di fantasia su come sarebbe appunto stato unire i due esercizi, quello in cui venissero venduti giochi, film e affini, e un bar/locale; ipotizzando come fare e a chi rivolgersi per le opportune licenze, chiedendo a quelli “più grandi” se in termini di Legge una cosa del genere fosse anche solo proponibile, al che loro, ben più smaliziati, con più capelli bianchi e più disperati di noi, ci dissuadevano come solo certi siciliani sanno fare, illustrandoci con uno scrupolo dal retrogusto sadico fino ai cunicoli di una burocrazia matta, una spirale da cui se ne esce più vecchi e più poveri di quando se n’era entrati.
I più svelti avranno già capito dove intendo andare a parare: UCI non sembra infatti percepire questo grande spazio, in cui sostanzialmente ci si compra da bere e da mangiare, come un luogo di ritrovo. Insomma, non è quel posto in cui prima o dopo la proiezione ci si raduna per parlare, discutere, bensì, ancora, è un posto di passaggio, una delle fasi di cui consta l’esperienza Luxe. Già qui, ad ogni buon conto, sono state prese alcune misure. Sembra infatti di stare in un centro commerciale, il feeling è lo stesso: hai il bar in cui trovi praticamente di tutto, alcolici inclusi; c’è l’angolo dedicato a dolciumi e affini, quello in cui puoi farti uno yogurt probiotico spolverandoci sopra gli immancabili top; in questa sezione c’è pure uno di quegli stand simil-Autogrill, in cui, se va, ci si può prendere diversi tipi di patatine e una discreta varietà di frutta secca.
Varietà, in questo senso, è probabilmente la parola d’ordine su cui è imperniata questa rivisitazione della zona cosiddetta food & beverage. Come scherzosamente ha sottolineato nel corso della presentazione informale Ramón Biarnés, Managing Director del Sud-Europa (Spagna, Italia e Portogallo) di Odeon Cinemas Group, ci sono ben 96 tipi di Coca-Cola alle quali è possibile attingere con la modalità refill, insomma fai da tè (quella alla Vaniglia è una droga, e chi scrive si è limitato alla versione senza zucchero). Reticente, ero più attratto dalla procedura, basata sul touch-screen, che dalle bibite: in pratica navighi all’interno di un menù molto semplice e ti scegli quello che più ti aggrada, salvo non dover fare i conti con la curiosità, allora stai lì a fare avanti e indietro, mentre gli altri ti guardano come se stessi risolvendo un teorema. Ancora, ammetto, non mi è chiaro se tra le 96 Coca-Cola siano o meno contemplati i possibili mix, intuizione alla quale non sono pervenuto da solo bensì sotto consiglio di chi lì ci lavora. Che io sappia, nessuno ha provato a fare il mischione, non so se per pudore o perché semplicemente credeva fosse una boutade.
Inutile stare qui a farvi l’elenco di ciò che si può mangiare; per il tipo di trattazione, ho persino sforato di già. Al bancone del cibo, nondimeno, trovate pizza e panini che guardano a quella dicitura oggi alquanto in voga (o forse no, solo che la si sente spesso, magari a sproposito) che risponde al termine gourmet: non le semplici ricette raffazzonate, bensì qualcosa di un po’ più elaborato, sempre a prezzi contenuti, ma con un’attenzione maggiore alla qualità. Tranquilli, stiamo arrivando al punto in cui capirete come mai questo pezzo non sarebbe stato meglio su Dissapore.
Tocca a tal proposito tornare per un istante a quanto scritto in relazione alla disponibilità di pochissimi posti a sedere, roba risibile proprio. Beh, non è che UCI volesse risparmiare su tavoli e sedie; è che, una volta fatta la “spesa”, loro vi vogliono in sala, davanti allo schermo. E dove sennò? La vera rivoluzione, quantunque non innovativa nell’accezione più ampia del termine, sta infatti là dentro. L’idea è infatti quella di ridurre il numero di posti, soppiantando le classiche poltroncine con delle poltrone vere e proprie, più spaziose, reclinabili, con tanto di vassoio integrato. In pratica come essere a casa, meglio che a casa. Con una distanza notevole tra una fila e l’altra, si ha davvero l’impressione di trovarsi “soli” là dentro, senza possibilità di contatto; manca in buona sostanza la predisposizione di capsule insonorizzate, e davvero siamo lì.
Ora un po’ di dati, alcuni dei quali vanno contestualizzati alla location, dato che non dovunque s’interverrà allo stesso modo, per ovvie ragioni. UCI Cinemas tanto per cominciare ha già messo in conto di trasformare il 50% delle sale sparse per il mondo in Luxe; il senso non è quello infatti di offrire qualcosa di esclusivo, ma di attirare quanta più gente possibile, ecco perché di questa trasformazione intende farsi carico da subito a mo’ d’investimento – non per niente i prezzi resteranno invariati. Per dire, già solo l’intervento di Campi Bisenzio ha comportato una spesa di circa 7 milioni di euro, e non passerà tantissimo prima che qualcosa del genere venga replicato, per fare un esempio, presso il Westfield che aprirà a Segrate (MI), già consacrato quale il più grande centro commerciale d’Europa, i cui lavori pare termineranno nel 2021.
Tutto bello, ma gli schermi? La tecnologia insomma? Anche su quel fronte l’impegno è di uniformare tutte le sale alla fascia denominata PLG (Premium Large Format), in cui in particolar modo rientra la tecnologia di cui UCI è proprietaria, ossia iSens, che si fa forte della sua partnership con Dolby Atmos sul fronte del sonoro. Questo per chi, come il sottoscritto, cominciasse a pensare che UCI si stesse preoccupando più del corpo che dello spirito, più della pancia che degli occhi. Anzi, da una chiacchierata avuta successivamente con Biarnés è emerso sia che è prevista anche in futuro l’integrazione di sale IMAX nell’ambito della proposta Luxe, ma che soprattutto negli Stati Uniti è già partito un progetto che prevede un’area totalmente dedicata alla virtual reality.
Voglio dire, ammetto di essere stato un po’ scettico circa le intenzioni di UCI, senza vedere nel loro operato chissà quale reincarnazione del Maligno, ma pur sempre sul chi va là rispetto ad un’azienda così grossa che, intervenendo in maniera così massiccia sul fronte dell’esperienza in sala, si dimenticasse la ragione principe per cui ci si dovrebbe recare al cinema. Qui emerge dunque la necessità di fare un po’ il punto della situazione a più ampio spettro; fare un respiro profondo ed inoltrarsi in un discorso complesso, che non per nulla posso in questa sede giusto sfiorare. Ma va fatto.
Immagino infatti qualche purista, giunto fin qui, rigirarsi il papillon col dito indice, mentre tra sé e sé va ripetendo «o tempora o mora», sperimentando una malcelata indignazione, manifestata solo dal grigiore del volto, fattosi addirittura scuro, da pallido che era. E sapete che c’è? Vi capisco. La sala, nata come intrattenimento per il popolino, che finché si meravigliava restava a bocca aperta, salvo poi “abituarsi” e cominciare ad allentare certi freni, a un certo punto s’imborghesisce; non un male di per sé, al di là di certuni che, quando sentono il termine borghese, si chiude a riccio e spara spine. Il “raffinarsi” di certo ambiente ha contribuito a quell’aura sacrale che la sala ha col tempo acquisito, fino a diventare tempio, sebbene sin da principio sala e cinema sono un tutt’uno, va da sé. Ma siccome questo non è un articolo di sociologia, basti questo giusto per indirizzarvi.
Salto di 40/50 anni, nel 2018 è in corso d’opera una pseudo-battaglia tra difensori della sala (per lo più esercenti) e piattaforme streaming (con Netflix in prima linea). Mentre molti s’affrettano nello scegliere da che parte stare, qui preferirei si optasse per un approccio neutro, più analitico se possibile. Chi scrive non ritiene infatti Netflix o chi per loro il Male Assoluto, soprattutto in relazione ad un fenomeno che in fondo non inizia con loro, bensì che si sono limitati a cavalcare. Netflix, o altri per ciò che vale, risponde alla domanda, forse finanche all’esigenza di una sempre più cospicua fetta di pubblico che ha un profondo bisogno di narrazioni, sotto forma d’intrattenimento in primis, ma che si trova inserita all’interno di una cultura che il più delle volte ha relegato la sala, o per meglio dire l’attività di recarsi al cinema, a qualcosa di sporadico nella migliore delle ipotesi, fino all’estremo dell’evento semestrale/annuale (conosco persone che non vanno al cinema da anni).
Prima che la pratica dello streaming venisse ripulita da quel rimando automatico all’illegalità, quel suo sottotesto di abitudine appannaggio di chi non vuole spendere un soldo ma preferisce rubare (inutile che ce la raccontiamo, per certi organi questo era), già il fenomeno era così diffuso che, oserei dire spontaneamente, la sala ne è uscita ridimensionata. Possiamo prendercela con l’indolenza di esercenti che non hanno voluto vedere il cambiamento in atto, rifiutandolo e appiattendosi su posizioni che oramai riguardano solo loro; oppure possiamo scagliarci contro la pigrizia di un pubblico che, sala o meno, pare non avere proprio gusti, men che meno curiosità, per cui, per dire, Sokurov non lo guarda nemmeno se glielo trasmettessero mediante evolute lenti a contatto durante il sonno.
In tanti hanno proposto diagnosi di vario tipo, alcune sensate, altre meno. Altri continuano a preferire l’arroccamento, ed anche quella a suo modo è una risposta. La domanda tuttavia rimane, incalzante, ineludibile: come riportiamo la gente nelle sale? Come si convince un gruppo di amici, una coppia, una famiglia, o addirittura il singolo (ed è a questo, mi pare, colui al quale nei prossimi anni ci si dovrà rivolgere con maggiore insistenza) ad uscire di casa, prendere i mezzi, l’auto, l’elicottero, il jet pack e recarsi in sala? Il critico di professione, e non sempre di questo ha colpa, vive in una sorta di bolla per cui la sua percezione della realtà risulta sballata. Viva Tarantino, Nolan, Anderson e chi per loro che si battono anzitutto per la pellicola, di conseguenza per la sala; né si può dire che non si adoperino coi loro stessi film a tal fine. Eppure, il problema rimane.
Quello di UCI, a fronte di queste brevi perciò poco esaustive considerazioni, tendo a leggerlo come un tentativo che ha implicitamente, forse finanche inconsapevolmente, i contorni della provocazione. Non si sa quasi più come “viziarlo” questo spettatore, vezzeggiarlo, per amore di convincerlo che stare in quel posto che è il cinema non è e non sarà mai la stessa cosa che vedere qualunque cosa da qualunque altra parte. Certo, per loro è business, e ci mancherebbe; mentre noi che a vario titolo orbitiamo attorno a questa industria non possiamo fare a meno di domandarci se e fino a che punto il trade-off possa pagare.
Nel senso… fino a che punto l’esperienza cinematografica, che non può prescindere da un’audience, comunque la si veda, può venire “piegata” a logiche per lo più estranee senza venirne snaturata? Dinamiche concettualmente esterne, che però si sono a tal punto riversate sui modi di fruire prodotti audiovisivi, dunque pure film, che, piaccia o meno, bisogna farci i conti. Parecchi e stimati studiosi e critici, pur in un periodo di cambiamenti profondi, forse radicali, hanno offerto ragioni per lo più solide per cui il Cinema supererà anche questa, qualunque cosa sia, ragioni che in parte già abbiamo sotto gli occhi. Meno ci dicono sui luoghi di visione, che chiunque dotato di un minimo di buon senso sa essere determinanti rispetto ai contenuti in misura tutt’altro che relativa. Bisognerà accettare che qualcosa cambi, magari in un primo momento, lavorare per promuovere una cultura anziché delegare sempre ad altri le colpe per uno status quo che non di rado è frutto di tante, troppe situazioni convergenti.
Non so se queste sale siano la risposta, ed in fondo sicuri non si possono dire nemmeno al quartier generale di UCI. Tuttavia ci credono, tanto da averci impegnato un bel po’ di quattrini ed avere intenzione di insistere. Ho chiesto pure se in futuro vorranno diversificare la proposta, infilando qua e là in programmazione qualche film diverso, atipico per l’ambiente, quelli che un tempo venivano definiti d’essai; la risposta è stata incerta, e forse inevitabilmente, anche se una chiusura non c’è stata. D’altronde la sala, così per come la immaginano loro, non potrà né dovrà limitarsi alla proiezione di film bensì aprirsi, come già spesso fa, ad eventi di varia natura, giusto per garantirne la sua sussistenza. Non ci si scandalizzi. Vi fornisco un dato, anche se riguarda solo Campi Bisenzio. Ebbene, qui, quando tutto sarà pronto, sarà stata tagliata la bellezza del 40% di posti; eppure loro, con questa formula, prevedono un’affluenza pari al doppio rispetto a quando c’erano quasi la metà in più. Si tifi per chi si vuole, ma qui si tratterebbe di un numero notevole di persone che magari, nella migliore delle ipotesi, si riuscirà persino a fidelizzare; inizialmente potrebbe essere per le tortillas appoggiate sul tavolino e le gambe distese, più avanti chi lo sa?
I problemi sono davvero altri. Chiudo infatti con quest’altra piccola nota personale, avulsa ma neanche tanto da quanto abbiamo trattato in questo nostro scritto. Poiché a suo tempo mi persi la proiezione stampa di Mission Impossible: Fallout, l’ho recuperato successivamente. Le differenze tra un pubblico di addetti ai lavori ed uno pagante possono essere notevoli, è un dato di fatto. Parliamo di un film mainstream che più mainstream non si può, confezionato apposta per non darti tregua, non annoiarti, non darti troppo da pensare, come si dice fra amici. Ebbene, chiamatela deformazione professionale, ma di tanto in tanto ho cercato di guardarmi attorno, di percepire gli altri, di attenermi dunque alle regole non scritte di un evento per sua natura collettivo. E cosa scopro? Scopro che tanti, troppi non ce la fanno proprio a stare in silenzio per mezz’ora, figurarsi per due ore; che quel diavolo di aggeggio che tengono in tasca sembra che scoppi se non lo tirano fuori ogni dieci minuti al massimo; che la soglia d’attenzione è drammaticamente bassa anche in coloro che non fanno alcuna di queste due cose. Trattasi di un problema più ampio, né tantomeno intendo confinarlo ad un singolo episodio. Ma di strada ce n’è parecchia e qualcosa bisognerà pur provarla. In compenso, comunque, io e mia moglie eravamo forse gli unici ad avere i popcorn.