Venezia 2018, Ying (Shadow): recensione del film di Zhang Yimou
Festival di Venezia 2018: lo splendore formale di questo Zhang Yimou è innegabile, sebbene si fatichi nel corso di una prima parte la cui lentezza mette a dura prova. Nondimeno, Shadow ha almeno altrettanti meriti
Terzo secolo, periodo dei Tre Regni. Un emissario del regno di Pei torna dalla città di Jing, i cui rapporti si reggono su equilibri oltremodo precari, dicendo che la supremazia di una delle due dipenderà dall’esito di un duello, uno contro uno. Il tutto senza il permesso del sovrano, che in questa prima parte sembra quasi il terzo incomodo, ma che al tempo stesso deve trovare una soluzione al fine di sedare gli animi ed in qualche modo sanare l’offesa; così decide di offrire l’avvenente sorella (Guan Xiaotong) al figlio del Generale di Jing, contro la volontà della donna.
Per quasi un’ora o giù di lì Zhang Yimou fa di Shadow una sorta di manuale illustrato circa determinate dinamiche di corte, con un rigore formale che al tempo stesso contempla una ricchezza scenica non da poco. Da un punto di vista meramente visivo si potrebbe quasi dire che Shadow sia uno dei migliori film in bianco e nero però a colori in circolazione. Non si vaneggia: la scelta visuale, fotografica e scenografica, è precisa, e costituisce senz’altro l’elemento più pregiato della produzione. Paletta cromatica ridotta all’osso, con molteplici sfumature di grigio prevalenti, non importa in quale ambiente ci si trovi, né se, come accade per buona parte del film, piova o meno, con quel cielo coperto che è una costante. Quando all’inizio ci viene mostrato il simbolo del taijitu si vuole sostanzialmente esplicitare un elemento che s’impone da subito e che diventa palese a maggior ragione col dipanarsi della trama; Yimou struttura il suo Shadow sul concetto in questione, l’yin e yang, gli opposti della filosofia cinese antica.
Il titolo stesso ne è un esempio, col suo evocare la teoria del doppio: shadow, l’ombra, è il ruolo di colui che prende il posto di un’altra persona al fine di preservare quest’ultima. Va da sé che sono le alte cariche a ricorrere a questo stratagemma, non solo a tutela di sé stessi ma spesso e volentieri al fine di mantenere pace o quantomeno equilibrio. Vi è che il quadro in Shadow è un attimo più complesso, e la dinamica appena descritta potrebbe benissimo essere estesa anche ad altre fattispecie, in un gioco di riflessi speculari per cui probabilmente si dovrebbe far ricorso ad un articolo apposito.
Ad ogni modo, s’ha da essere pazienti rispetto a questa prima parte, nel corso della quale il regista cinese si prende tutto il tempo che gli serve per ricostruire nella maniera più chiara ed approfondita possibile il contesto politico entro il quale lo spettatore deve muoversi, a ritmi bassi, calcolati, la cui messa in scena risulta curata quasi in maniera ossessiva, un controllo di tutto ciò che sta all’interno dell’inquadratura pressoché maniacale, così come per i movimenti di camera ed in seguito i non pochi slow-motion.
Ecco appunto, i rallentamenti. Quando l’azione fa capolino cambia il ritmo ma non la tenuta, quell’idea alla base che informa ogni singola sfaccettatura di Shadow. Tutto è, per così dire, coreografato, una ferita al petto inflitta per esigenze insieme morali e “sceniche”, così come un bacio che è rimasto nell’aria per tanto tempo, finché non arriva e lo si accoglie con la dovuta accortezza, né più né meno di uno scontro ad armi bianche. Shadow, come tanto cinema orientale, con particolare riferimento ai wuxia declinati in vari modi, rappresenta forse il miglior antidoto all’action frenetico, non di rado sconsiderato all’occidentale, anche rispetto a quelle produzioni più riuscite, tese a bombardare i sensi, stordendoli.
È questa la ragione per cui più di qualcuno potrebbe sperimentare un certo rigetto all’ultimo lavoro di Yimou, che invece chiede, anzi, pretende di essere non dico contemplato ma quantomeno osservato, provvedendo chiaramente a metterci in condizione di riuscirci. Anche nelle fasi più concitate, quelle che inevitabilmente tutti si attendono lungo il corso di quella che può finanche apparire come una prima, snervante metà, Shadow rifiuta risolutamente qualsivoglia sbornia sensoriale, optando per la precisione dei movimenti, laddove non addirittura la grazia dei gesti. Tutte cose a cui, non nascondiamocelo, bisogna in qualche modo essere “preparati”, propensi previa una certa familiarità, un minimo d’esposizione.
Un film che tuttavia non è fatto solo di eleganti pennellate e geometrismi che tendono alla perfezione. Quella di Shadow è una tragedia scespiriana, storia di troni e cospirazioni, stirpi che si combattono per mezzo dell’inganno e del sotterfugio, tutto alimentato dalla sfrenata ambizione, una brama spropositata, sia essa di gloria o di potere. Temi universali, oltremodo umani, con i quali perciò è facile entrare in sintonia, a prescindere dalla distanza sia storica che geografica. Tradimenti, doppi-giochi e tutto ciò che ci sta sopra, sotto e di lato, con qualche twist qua e là, completano il tutto; uno scenario la cui estetica non è mero orpello, facendosi etica di un film così preciso, netto, espressione di una cultura specifica. Shadow è uno di quegli esempi in cui non tutto è giusto, senonché quasi niente è sbagliato.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
Shadow (Ying, Cina, 2018) di Zhang Yimou. Con Deng Chao, Sun Li, Zheng Kai, Wang Qianyuan, Wang Jingchun, Hu Jun, Guan Xiaotong e Wu Leo. Fuori Concorso.