Venezia 2018, Frères Ennemis (Close Enemies): recensione del film di David Oelhoffen
Festival di Venezia 2018: in Frères Ennemis David Oelhoffen fa poche cose ma le fa tutte bene, assemblando un thriller a tinte noir asciutto, dai meccanismi lineari ma funzionanti
Manuel (Matthias Schoenaerts) si appresta a mettere a segno un colpo importante. Nella periferia in cui l’unico modo per stare a galla è la criminalità, micro o macro, Manuel si guadagna da vivere per lo più trafficando droga. Nello specifico, un importante carico di coca è in procinto di essere consegnato a tale Reyes; qualcosa va storto, il SUV col quale Manuel e soci si stanno recando per lo scambio viene attaccato. Quest’ultimo la scampa, ora però tocca capire cos’è successo, chi lo ha venduto. C’è però chi da un simile contesto ne è uscito, ma per farlo è dovuto passare dall’altra parte della barricata; si tratta di Driss (Reda Kateb), che ora lavora per la narcotici, dopo aver trascorso i migliori anni della sua vita insieme a Manuel, da fratelli.
Frères Ennemis riprende uno schema oltremodo rodato, quasi per eccellenza, quintessenzialmente legato al thriller: due amici fraterni “militano” per due fazioni opposte e antitetiche, perciò profondamente divisi tra l’ottenimento dello scopo e l’amore per l’altro. Oelhoffen non vuole integrare chissà cosa a tutto ciò, perfetto nella sua rotondità già così com’è; piuttosto s’industria a cavarci fuori l’ennesima storia, un’altra parabola in cui vendetta e redenzione vengono strenuamente perseguite ma non per forza ottenute. Non è così immediato evidenziare quanto e in che misura le cose funzionano, eppure è così: senza exploit, lavorando tanto sui codici e asciugando tutto il resto, Frères Ennemis viene fuori discretamente bene.
Il tutto è improntato alla semplicità, alla chiarezza espositiva, al non farsi limitare da certi twist tendenzialmente prevedibili, dai soliti, sempre sorprendentemente entusiasmanti discorsi a cui si assiste quando tra criminale e poliziotto intercorre qualcosa di più del mero rispetto, ché già non sarebbe poco. L’alternanza tra l’operato di uno e quello dell’altro quasi non s’avverte, come se appunto i due archi narrativi appartenessero, come di fatto è, a quell’unico racconto che si sostanzia nel loro rivaleggiare, questo ineludibile antagonismo al quale entrambi vorrebbero sottrarsi e forse fino a un certo punto ce l’hanno anche fatta. Non stavolta, non a questo punto della loro storia. Sembra banale alludere al racconto unico, ma va altresì chiarito che non sempre si arriva a conseguire questa fluidità: tanti progetti analoghi si schiantano proprio sull’inabilità nel calcolare i tempi, rispettarli, senza appesantire ma al contempo mantenendo lo spirito.
Frères Ennemis invece incalza, il che è quasi paradossale se si pensa che tutto è fuorché movimentato, salvo rari passaggi. Eppure alla fine ci si rende conto di essere stati in apnea per tutto il tempo, senza essersi persi alcunché, senza un attimo di stanca, perché le informazioni sono quelle giuste e vengono snocciolate nel modo giusto. Lo stesso rapporto tra Driss e Manuel viene in qualche modo chiarito davvero solo in chiusura, mentre per una buona parte del film è come se Driss in fondo parteggiasse per loro, i criminali, perché li riconosce, rivede lui in loro, tanto che una delle frasi più potenti del film è quella che vomita addosso all’amico di una vita per spiegare come mai è passato dall’altra parte (cito a memoria): «perché è l’unico posto in cui questa faccia può essere presa sul serio», per dire in altre parole che l’unica ragione per cui si trova in polizia è perché li aiuta a catturare quelli come lui.
In questo gioco di specchi, va da sé, non vi è granché spazio per le sfumature: tutti i personaggi sono alquanto consapevoli circa i rispettivi ruoli, sanno chi si trova dalla parte giusta e chi no, da qui “premi” e “castighi”, secondo un modello decisamente rigido, finanche deterministico se vogliamo, ma fa parte del gioco, prendere o lasciare. Il crimine non paga, il bene alla fine vince e via discorrendo; luoghi comuni del genere, usando una definizione forse impropria, ma che nondimeno si prestano al tal punto ad essere riproposti, potenzialmente all’infinito, che si può, per certi versi si deve perdonare quanto fanno perdere in spessore.
Una corsa contro il tempo, dunque, che vede il personaggio di Schoenaerts battersi su due fronti, tra chi vuole sbatterlo in galera per poi buttare la chiave e chi, semplicemente, lo vuole disteso per lungo. Tutto molto lineare, essenziale, ma come rileviamo poco sopra, Frères Ennemis ha un cuore, sotto quella veste a prima vista consumata pulsa vita, ci conduce all’interno di questo dramma che vede coinvolti due uomini i quali, a qualunque altra condizione, avrebbero affrontato il mondo a petto nudo, uno a fianco dell’altro, fieri e indomiti. Non qui, non adesso. C’è chi insegue e c’è chi scappa, non come il cacciatore fa con la preda bensì come il fratello maggiore fa col minore, il primo intento a salvare il secondo malgrado entrambi loro per primi, in fondo, conoscano l’epilogo del pessimo affare, che non può che essere uno ed uno soltanto. Ed è esattamente questo a rendere tutto ciò che viene prima così corroborante, il loro procedere secondo un programma già scritto come se così non fosse, mentre si dimenano nella totale illusione che davvero le loro azioni possano in qualche modo ribaltare la sorte. Magia del thriller, che quando è fatto con criterio e funziona non sbaglia mai o quasi.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]
Frères Ennemis (Francia/Belgio, 2018) di David Oelhoffen. Con Matthias Schoenaerts, Reda Kateb, Adel Bencherif, Sofiane Zermani, Nicolas Giraud, Marc Barbe, Sabrina Ouazani, Gwendolyn Gourvenec e Astrid Whettnall. In Concorso.