Venezia 2018, The Mountain: recensione del film di Rick Alverson
Festival di Venezia 2018: un indisponente Rick Alverson ci porta nell’america dei sobborghi, desolata e respingente, come questo suo fascinoso ancorché poco decifrabile The Mountain
Nel cuore degli Stati Uniti, siamo negli anni ’50, il giovane Andy (Tye Sheridan) diventa una sorta di aiutante di Wallace Fiennes (Jeff Goldblum), un dottore lobotomizza pazienti negli istituti psichiatrici. Rapito dalla pratica, prima ancora che dal fascino del medico probabilmente, i due cominciano a girare per queste terre desolate e sconfinate, lungo strade immerse nel verde di foreste incombenti e minacciose. Li si vede spesso nel corso di queste loro traversate, che assumono un senso diverso, ulteriore rispetto al semplice spostarsi da un ospedale all’altro, dove insieme praticano questo tipo d’intervento: è un muoversi lungo territori che non si conoscono, come il dottore, che si affida totalmente al metodo.
Il modo in cui Rick Alverson riesce a staccare da uno scenario per lo più inquietante, con uscite esilaranti, sopra le righe, è davvero particolare. Ha un suo modo di vedere come questa storia assurda, così smaccatamente americana, debba essere condotta, ed allora il regista di Entertainment sceglie quella apparentemente meno accattivante. L’incedere di The Mountain è lo stesso del suo protagonista, interpretato da Sheridan: lento, estremamente lento, a tratti snervante. Definirlo tuttavia punitivo ci pare una sonora sciocchezza; impegnativo senz’altro, anzi, parte del fascino sta proprio nella sfida che viene lanciata allo spettatore, chiamato a raccapezzarsi in mezzo a quell’avvicendarsi convulso e sgangherato di episodi quasi mai connessi, se non rispetto a colui la cui prospettiva è la più vicina alla nostra, ossia appunto Andy.
Quando quest’ultimo s’imbarca in questa sua avventura con Fiennes, costretto dagli eventi per certi versi, s’instaura un rapporto che ha molto a che vedere con quello tra discepolo e maestro; Andy non è particolarmente dotato a livello intellettivo, parla poco, ha l’aria di colui che non sa mai perché si trova in quel posto, in quel determinato momento, perciò il suo trascinarsi, quell’incertezza profonda manifestata da movenze misuratissime, oltremodo composte. Si prende un bel rischio Alverson imponendo ai suoi personaggi, dunque al film, questo ritmo così cadenzato, che se vogliamo costituisce un escamotage ironico di per sé, un joke su cui il regista impernia un po’ tutto il proprio racconto, più di un semplice vezzo stilistico (malgrado il concedersi tempi dilatati sia un po’ una sua prerogativa).
Ecco perché quando entra, anzi, irrompe in scena Jack (Denis Lavant), il metabolismo di The Mountain ne risente. Shock voluto, necessario, oserei dire indispensabile: quel gigioneggiare di Lavant, unico, imprevedibile, così sconnesso da tutto il resto, funge un po’ da sigillo alla portata del lavoro di Alverson, che non per niente “rigetta” il corpo estraneo dicendoci qualcosa pure a noi. Jack è francese, l’unico straniero di cui veniamo messi a parte; uno che però vive lì, in quell’area così surreale, troppo realistica per essere magica, troppo fantastica per essere reale. Ed infatti ci è uscito pazzo, Jack, che a un certo punto pontifica su Arte e dintorni, su cosa sia, su come vada praticata, letta, vista, elargendo sentenze da Vecchio Continente su un popolo che evidente non capisce; c’ha provato e, per l’appunto, non gli ha fatto per niente bene.
Cede nel finale The Mountain, anche se più che di cedimento si potrebbe parlare di eccesso di coerenza: proprio quando avrebbe potuto e forse dovuto tirare le fila di un discorso fin lì scarsamente decifrabile eppure dotato di una forza calamitante, preferisce insistere e finire così come aveva cominciato e proseguito, negando(ci) per l’ennesima ed ultima volta dei contorni netti; che dico netti, più distinguibili. Alverson, e The Mountain ne è la palese conferma, coltiva un senso tutto suo dell’assurdo e dell’humor ad esso collegato, malgrado certe note à la Lynch o lo stesso Lanthimos, anch’egli presente in Concorso; glaciale, estremamente sottile, beffardamente esemplificato dal protagonista del suo film precedente, Entertainment appunto, un comico che non fa ridere, o che ci riesce suo malgrado. Qui si potrebbe fare cenno alla frase di rito di Fiennes quando parla coi pazienti, quel «cosa ti dicono le voci» che a un certo punto fa sorridere, non senza ragione.
Al contrario, il processo di Alverson è decisamente consapevole, pregno d’intuizioni. Con un senso della misura anch’esso sopra le righe, pur non urlando alcunché, anche nel suo manifestarsi come oggetto incompiuto, ma questo proprio perché vera chiusa non si dà ad un modo di vedere le cose a tal punto aperto, stravagante. Il resto lo fanno, a parte una messa in scena quasi inevitabilmente geometrica, e una fotografia sontuosa, da rivista di moda di quegli anni lì verrebbe da dire, che contribuisce in maniera tutt’altro che approssimativa alla resa di un lavoro che chiede parecchio, ma che restituisce tanto basta per accettarne le pretese, anche un tema musicale che incalza dal primo all’ultimo istante, ossessionante, proprio per questo centrato. L’ansia della comprensione a tutto tondo non può che remare contro; The Mountain nasce e si sviluppa perseguendo altre priorità, che includono lo spettatore, altroché, senza però blandirlo o, peggio, ghermirlo com’è nella natura di altro tipo di opere. E non è peccato di certo ritenere rispettabile questa presunzione di poter fare a meno di certe cose.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”4″ layout=”left”]
The Mountain (USA, 2018) di Rick Alverson. Con Tye Sheridan, Jeff Goldblum, Hannah Gross, Denis Lavant, Udo Kier, Annemarie Lawless, Eleonore Hendricks e Margot Klein. In Concorso.