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La prima notte del giudizio: recensione del film di Gerard McMurray

Più che distopia, maldestro commentario di un’attualità complessa, troppo per una saga che a questo punto doveva tirare inevitabilmente le fila del discorso. La prima notte del giudizio è il prologo del prologo che non diverte né approfondisce

pubblicato 5 Luglio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 18:45

Da qualche parte, in qualche modo, doveva pur cominciare. La notte del giudizio rappresenta una delle intuizioni più suggestive di questi anni delicati, che dalla sua prima iterazione ha portato in dote un sottotesto politico dapprima contenuto, salvo per forza di cose doverci un po’ alla volta fare i conti, e in maniera vieppiù manifesta. La prima notte del giudizio, quarto film della saga, è per certi versi un prologo del prologo; sì perché non si parla della prima, vera notte del giudizio, bensì del primo esperimento, quello condotto esclusivamente a Staten Island. Il nuovo Presidente degli USA è stato da poco eletto, ma già si parla di Nuovi Padri Fondatori e amenità simili; senonché oggi il tutto assume inevitabilmente dei contorni diversi, perché tra Election Year e questo quarto capitolo c’è di mezzo l’ascesa di Donald Trump, e nessuno ha certo intenzione di fare gnorri a tal riguardo.

Laddove nei precedenti episodi, in particolare i primi due, gli autori hanno cercato di mantenere un tono in fin dei conti “giocoso”, relegando l’entità della questione e le sue già menzionate nonché ineludibili implicazioni all’incipit, già dal terzo abbiamo assistito ad un cambio di rotta. The Purge (titolo originale della saga) si è per certi versi incattivito, in parte perché s’ha da giustificare l’idea di volerne fare degli altri, in parte, viene da credere, perché qualcuno ha intercettato “qualcosa” che effettivamente sembra stare emergendo, un malessere, per così dire, che non è più possibile derubricare a evento episodico, data la mobilitazione di massa che si è organizzata, proprio dall’elezione di Trump in poi, in gruppi sempre più specifici, riportando in auge un «noi contro loro» mai del tutto sopito ma adesso promosso alla luce del sole, senza alcuna sofisticazione di sorta.

In questo senso La prima notte del giudizio è il più politico, nonché dunque il più maldestro dei quattro, proprio nella misura in cui la distopia non diventa più lettura di un possibile approdo, seppur chiaramente riconducibile alla quotidianità, bensì vera e propria denuncia dello status quo, letta peraltro in modo parziale. In tal senso, forse, il film di DeMonaco, che per la prima volta non dirige ma si limita a scriverne solo la sceneggiatura, porta alle estreme conseguenze le possibilità alla base del progetto: fungere da catalizzatore di un malessere davanti al quale, preso atto della propria impotenza, si allargano le braccia. Come a dire: non c’è discussione che tiene… siamo in pericolo, l’unica perciò è mostrare cosa vediamo noi nella piega che ha preso il nostro Paese, come interpretiamo la svolta della nostra società alla luce dell’avvicendamento al “Potere”.

Uno vorrebbe non tentare nemmeno una lettura così complessa e articolata, di cui peraltro lo stesso film non è all’altezza per via di argomentazioni volutamente deboli, di pancia, lasciate lì a uso e consumo di chi sa già da che parte stare, senza essere interessato a capire. Se non fosse che davvero c’è poco altro: istanze e solo istanze. È talmente scarno il discorso rispetto a un prologo che ci si aspetta, se non risolutivo, quantomeno pregno d’informazioni e/o indicazioni su quale fu lo scenario da principio, cosa portò a maturare tale provvedimento, all’interno di quale cornice, che dover assistere a dei soldati il cui capo indossa un cappotto di pelle ed una maschera inquietante rappresentano davvero poca cosa.

Il dire ma non dire, sentendosi in dovere di farlo nella misura in cui la svolta black di questo prequel può risultare comunque accessibile. Staten Island, da quanto si evince, è un quartiere a prevalenza afro-americana, e, sebbene delle prime avvisaglie sia possibile scorgerle pure nei film precedenti, qui il tutto assume una forma ben precisa, che non lascia spazio a chissà quale interpretazione. L’impressione tuttavia è che si tratti per lo più dell’ennesimo cavallo di Troia, dato che, per dirne una, la verve di un Get Out, prodotto diverso, di stampo decisamente più autoriale di questo, manca del tutto. Ma allora si tratta solo di alzare la voce, cosa su cui oggigiorno si va dibattendo un po’ dovunque, perché ogni Paese c’ha le sue e non tutti si è d’accordo sull’opportunità di manifestare il proprio dissenso su social e affini.

In primis, ad ogni buon conto, da un The Purge s’ha da pretendere il divertimento, la spensieratezza mista all’esasperazione tipica di un paesaggio distopico che vuole e sa intrattenere. Non dico Carpenter, ma a queste condizioni si ha tutt’al più l’idea di un materiale da cui c’è poco altro da spremere (anche se, onestamente, non lo credo), o semplicemente stracco è l’argomentare, al di là di qualsivoglia valutazione politica. Muoviamoci infatti sul piano dell’action, del film di fantascienza che prima ancora di avere qualcosa da dire ha un’idea precisa su come mettere in piedi tutto l’ambaradan. La prima notte del giudizio, sotto questo aspetto, trasmette solo fatica, l’incedere lento e costellato di soluzioni già esplorate, e meglio, in precedenza.

La storia di un’attivista e dell’ex-fidanzato gangster che tentano di tenere in piedi il proprio quartiere durante dodici ore di delirio già per sé porta in dote tutta una serie di cliché che, in quanto tali, hanno del potenziale che va però maneggiato con cura. Se ci si limita ad integrare quanto basta o serve per la catarsi, sotto forma di qualche sparatoria o accoltellamento scomposto e ripetuto, non si può certo tessere le lodi di quello che a conti fatti si pone come un commentario con ulteriori didascalie annesse. Anche alla luce di tutto ciò, tra l’altro, questo suo tentativo di speculare sulla crisi della forma che certi prodotti stanno fisiologicamente attraversando, leggasi b-movie con abiti griffati, non fa che acuire quella sensazione di vuoto dal quale di per sé il contenuto (che, di nuovo, non è solo né principalmente la presa di posizione politica) non riesce ad emendarsi.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”4.5″ layout=”left”]

La prima notte del giudizio (The First Purge, USA, 2018) di Gerard McMurray. Con Y’Lan Noel, Lex Scott Davis, Joivan Wade, Luna Lauren Vélez, Marisa Tomei, Patch Darragh, Mugga, Rotimi Paul, Kristen Solis, Melonie Diaz, Mo McRae, Derek Basco, Steve Harris, Jermel Howard e Chyna Layne. Nelle nostre sale da giovedì 5 luglio 2018.