La terra dell’abbastanza: Cineblog intervista Damiano e Fabio D’Innocenzo
«Secondo noi i bei film sono sempre racconti universali, mai ombelicali». Damiano e Fabio D’Innocenzo raccontano e si raccontano in merito alla loro opera prima, La terra dell’abbastanza, già impostasi come uno dei film italiani più interessanti dell’intera annata
Dal 7 giugno è in programmazione nelle nostre sale La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo. Opera prima, presentata nel corso dell’ultima Berlinale, sezione Panorama, da subito si è imposto anzitutto alla critica anglofona, che, entusiasta, si è prodigata in più di una lode. Ed il film dei due giovani italiani rappresenta effettivamente un esordio notevole, sebbene limitarsi al fatto che si tratti del loro primo film, ad avviso di chi scrive, finisce con il rivelarsi limitante.
La terra dell’abbastanza è un film dai modi non esattamente “italiani”, ammesso che tale dicitura significhi oggi qualcosa; sta di fatto che, lo abbiamo evidenziato in sede di recensione, cerca di emanciparsi, riuscendoci, da certo modo di accostarsi a storie di criminalità, facendo convergere più traiettorie, dal coming of age al ritratto a suo modo realista.
Qualcosa di unico quindi, nel senso proprio che da queste parti è difficile che ci si prodighi in sforzi produttivi del genere, per quanto contenuti, dato che La terra dell’abbastanza resta un’opera indipendente, per di più italiana. Ad ogni modo, abbiamo avvicinato i due registi, Damiano e Fabio, chiedendo loro qualcosa, non più di questo purtroppo, rispetto anzitutto alle premesse di questo loro debutto, cercando di approfondire aspetti che per forza di cose non possono emergere dal film, oppure sapere cosa ne pensano di certe idee che sono state proposte da critici e addetti ai lavori, con un occhio immancabilmente al loro prossimo progetto.
Intervista a Fabio e Damiano D’Innocenzo
Cineblog: Si è letto da più parti che sono passati parecchi anni da quando avete scritto la sceneggiatura (avevate 22 anni, se non erro) a quando siete poi concretamente riusciti a realizzare il film. Come ed in che misura il film rispecchia sia quella sceneggiatura ma soprattutto l’idea che avete avuto a suo tempo?
Fratelli D’Innocenzo: Fortunatamente il racconto attinge a una fase, quella dell’adolescenza, che ha un decorso lentissimo e fondante. Sicuramente il periodo più decisivo dell’esistenza, dove tutto vale doppio, triplo, perché accade per la prima volta e ti ritrovi emotivamente nudo, senza sovrastrutture. Amiamo le storie che narrano questi anni, da I Ragazzi della 56′ strada a La Vita di Adele o Kids Return di Kitano. Non siamo più così giovani, eppure ricordiamo tutto con una precisione (non lucidità, perché l’adolescenza è un percorso che si fa da ciechi) quindi mettere in scena questo racconto ci e’ venuto estremamente naturale. E’ un film naïf su due vergini, due angeli inadatti e bestemmiatori.
Una delle componenti che colpiscono di più sta nella recitazione, che definisco tale solo per convenzione, per capirci insomma. I vostri attori infatti, specie i due protagonisti, sono calati nei rispettivi personaggi più che limitarsi ad interpretarli. M’incuriosisce il vostro processo di direzione in tal senso, visto e considerato anche che si è trattato della prima volta per voi.
E’ stato un viaggio lungo e complicato, fin dalla ricerca. Andrea Carpenzano, Manolo nel film, lo abbiamo trovato al primo provino. Matteo Olivetti, che fa Mirko, invece è arrivato all’ultimo, come un miracolo. Matteo e’ metà italiano e metà britannico, Andrea figlio di un architetto, quindi con background completamente differenti dai personaggi che interpretano. Il complimento, involontario, che il più delle volte sentiamo su di loro e’ che sembra improvvisino. Invece no, si sono attenuti fedelmente al copione. Sono due fuoriclasse, ognuno con la propria inclinazione e peculiarità, noi ci siamo limitati a comprendere la loro interiorità e a farla fruttare sullo schermo. Oltre che attori meravigliosi sono due fini antropologi. Comprendono la vita negli aspetti più nascosti.
In una delle interviste che avete rilasciato in questi mesi avete detto che volevate imparare dai migliori, in parte spiegando come mai ci avete messo così tanto a realizzare La terra dell’abbastanza. Siete ancora sicuri, a posteriori, che non sarebbe proprio stato possibile girarlo con mezzi ben più modesti, recuperando qua e là attori e maestranze magari meno qualificate? Quali rischi avrebbe comportato una scelta del genere?
E’ una domanda molto interessante. Diciamo che nei primi tentativi (Gianluca Arcopinto) c’era la voglia di fare un film più contenuto, più piccolo. Non crediamo che i soldi siano fondamentali, altrimenti capolavori come L’imperatore di Roma di Nico D’alessandria non esisterebbero. Tuttavia, nel nostro percorso durante quegli anni di attesa, abbiamo conosciuto Paolo Bonfini. E ne siamo rimasti catturati. Quello che può darti lui in termini di scenografia va oltre quello che è in scena, diventa uno spazio reale anche per l’attore. Poi l’incontro con Garrone ci ha aperto alla conoscenza di suoi collaboratori storici, che umanamente prima anche che professionalmente erano straordinari. Allora quando i nostri produttori attuali (visto che i precedenti tentativi produttivi erano decaduti e altri in stand-by eterni) ci hanno chiesto di formare la crew noi avevamo le idee molto chiare. Pepito ha capito il cabotaggio delle nostre scelte e ci ha proposto Paolo Carnera. L’ultimo tassello decisivo. Tutti questi maestri sono venuti a un terzo del loro cache’ abituale. Lo hanno fatto perché credevano nel film e nella possibilità di fare qualcosa di importante. Ignoriamo i rischi di aver potuto fare il film con altre maestranze, semplicemente perché abbiamo scelto l’approccio opposto, ma conosciamo perfettamente il contributo che ha dato la nostra squadra al prodotto finale.
Domanda scontata: chi si occupa di cosa? Davvero la vostra collaborazione implica, per ovvi motivi oserei dire, dei ruoli così “sfumati” da non consentire di descrivere, anche per sommi capi, dove ciascuno di voi due opera di più o meglio rispetto all’altro?
Noi facciamo tutto assieme, a distanza, nessuno monitora il lavoro dell’altro semplicemente perché sa che la direzione è giusta. Se uno è al dipartimento scenografico e l’altro a quello fotografico, non basta che uno sguardo tra di noi a capire se sta funzionando. Se qualcosa non quadra se ne parla, ci defiliamo qualche minuto e ne parliamo. Chi fa cosa dipende dalla scena, dall’inclinazione del momento, o più semplicemente dall’istinto. Il film è stato realizzato molto di pancia. Per decidere il punto macchina spesso bastava scattare una fotografia.
Dovendo scegliere un solo passaggio, quale dei tanti che vi ha portato a realizzare finalmente il vostro film è stato il più sofferto, quello che vi ha messo più in difficoltà?
Il montaggio. Per un fatto puramente logistico: l’essere chiusi in una sala e’ di per se’ un limite. Inoltre montare e’ l’attività più ragionata, e tornando al concetto di istinto, il montaggio predilige altre capacità, più di natura analitica. Marco Spoletini e Giuliana Sarli, la sua assistente, sono stati abilissimi a fare un lavoro ponderato ma mai intellettuale, bilanciando la visceralita’ col concetto di sintesi.
Voi venite dalla fotografia ed in generale da altre Arti. Cosa vi ha convinto che il Cinema fosse lo strumento più adeguato a raccontare questa vostra storia? Domanda generale, che estendo al perché circa la vostra preferenza del medium cinematografico.
Veniamo dalla fotografia ma ci riteniamo dei dilettanti. Idem per il disegno. Da bambini pubblicavano fumetti già per gli inserti de Il Manifesto. Eravamo estremamente precoci e questo è diventato un pericolo, ci ha fatto rifiutare quella che ci sembrava già una strada avviata. Inoltre non ci ritenevamo così bravi. Però porzionare il mondo, scegliere cosa e’ in campo e soprattutto cosa e’ fuori dal frame ci ha sempre elettrizzato. Lo facciamo in qualsiasi contesto. Trovare in ogni situazione qualcosa di contraddittorio e invisibile che tuttavia, estrapolato dal momento, assume un valore quasi spirituale.
Ricollegandoci alla domanda precedente: c’è un film, un autore, un genere o che so io che, più di ogni altro, vi ha spinto ad intraprendere questo viaggio?
Onestamente Fassbinder e Cassavettes. Anche se poi, concretamente, gli insegnamenti decisivi ce li ha dati, anche involontariamente, Matteo Garrone. Gli dobbiamo tantissimo. La spinta di Matteo e’ stata più che altro una conferma: il cinema e’ un’arte concreta, materica, lontana dalle astrazioni e se senti la necessità di raccontare e raccontarti, nessuno può dirti che non sei in grado. Non servono patenti, non servono teorie. La necessità di raccontare una storia però deve essere sincera. Altrimenti viene fuori un cinema disonesto. In termini artistici le opere a tavolino sono la morte.
Le vicende che raccontate nel vostro film affondano nella quotidianità di una realtà specifica, che però non mi pare così esclusiva di una specifica area geografica. Dato l’approccio che avete scrupolosamente adottato, ritenete che mettersi al servizio della storia, qualunque storia, scremando tutto il resto, sia l’unico modo o comunque il più efficace per restituire la complessità della realtà odierna?
Crediamo che un cinema troppo territoriale alla fine rappresenti più uno svantaggio che un pregio. Quello che sembra essere realistico e’ più semplicemente cronachistico. E in una storia, non serve. La storia ha bisogno di un respiro archetipico: in parole povere un racconto che già intimamente sentiamo di conoscere, anche se magari non ci si siamo soffermati mai prima. Un certo cinema si sviluppa sull’effimero, mentre quello che piace a noi (e a tutti) indaga l’animo umano. Il nostro film narra una periferia non geografica, ma esistenziale. Ovviamente aveva bisogno di una certa cornice sociale, ma poteva svolgersi anche in Città del Messico. Non abbiamo la vanagloria di affermare che il nostro lo sia, ma i bei film sono sempre racconti universali, mai ombelicali.
Vi piace l’etichetta di neo-neorealismo appiccicata al vostro film? Quale che sia la risposta, perché? Anche per capire, nel caso, se la ritenete “centrata” o meno.
Sono definizioni sulle quali non ci soffermiamo più di tanto. Quando Guadagnino, un altro dei nostri incontri fortunati, ha visto La Terra Dell’Abbastanza, ci ha detto ‘avete fatto un film estremamente post-moderno’. Le correnti non sono importanti, anche perché si finisce sempre nel campo del soggettivistico. Se proprio vorresti una definizione noi crediamo di aver realizzato un melo’ in un contesto crime, un cinema allo stesso tempo antico e naïf.
Cosa potete dirci del vostro prossimo progetto?
Il nostro prossimo film sarà un racconto in costume, un racconto attorno al fuoco. Il genere è il western, ma è estremamente delinearizzato. Abbiamo scelto di uscire dal contemporaneo per una storia ancora più archetipica della Terra Dell’Abbastanza. Parla del rapporto tra uomo e donna, quindi, più specificamente, parla di come stiamo al mondo. La sceneggiatura è stata selezionata per il laboratorio di sviluppo del Sundance, che ci darà il privilegio enorme di confrontarci con autori del calibro di Paul Thomas Anderson, un cineasta che amiamo follemente.