Cannes 2018, Girls of the Sun: recensione del film di Eva Husson
Festival di Cannes 2018: opera in pratica militante, la Husson adotta i codici del film di guerra hollywoodiano per raccontare l’eroica resistenza, vera, di un gruppo di donne curde, con annesse virtù ma soprattutto vizi
Per Bahar (Golshifteh Farahani) cambia tutto allorché l’ISIS (mai nominato nel film) irrompe nella sua cittadina. È l’abiezione: le donne del luogo vengono separate dai propri figli, incarcerate, stuprate, e non possono farci nulla. Girls of the Sun è figlio della propria epoca sino in fondo, senza equivoci o fraintendimenti: senza indorare la pillola, senza girarci troppo attorno, ha una tesi da esporre e lo fa. Eva Husson in questo, le va dato atto, si prende i propri rischi, sebbene i tempi siano maturi per farlo: il suo è un film fieramente femminista, che appunto non si nasconde dietro a nient’altro, chiedendo di essere preso così per com’è. Ed effettivamente, alla luce di un tale approccio, qualche barriera all’ingresso emerge, quantunque l’operazione si riveli più complessa di così a priori, a prescindere dall’esecuzione.
Un gruppo di donne curde, accompagnate da una fotoreporter francese, Mathilde (Emmanuelle Bercot), non intende tirarsi indietro ed entra in una guerra che per definizione è affare di soli uomini. Girls of the Sun procede su più binari, alternando la temporalità degli eventi, soluzione che a dire il vero appare fine a sé stessa, finalizzata magari a “movimentare” una narrazione che diversamente si collocherebbe anch’essa sul medesimo piano di altre fattispecie. Sì perché il film della Husson, quanto alla forma, contempla buona parte dei pregi e dei difetti di certe megaproduzioni hollywoodiane, alle quali guarda per cercare qualcosa di più che semplice una ispirazione. In questo senso il prodotto è interessante, poiché attraverso il linguaggio del film di guerra accessibile, familiare, intende filtrare una vicenda che di “noto”, specie in sala, ha davvero poco.
Lo dice alla fine Bahar a Mathilde: dì la verità. La fotoreporter qualche scena prima spiega che sostanzialmente la verità deve bastare a sé stessa, che in poche parole, anche se quasi nessuno vuole sentirla ed è anzi disposto a tutto pur di non farsela rinfacciare, il suo anelito è sufficiente a farla sentire realizzata. Vedete com’è tutto così contemporaneo, nei modi così come nel linguaggio ed in generale in una certa forma mentis, una cultura specifica che non può che accogliere il lavoro della Husson con favore, dato che ne è espressione quasi geometrica. Non si può sorvolare con così tanta superficialità sull’inconsistenza di questi personaggi, recipienti di tutto, messaggi, slogan, forse anche valori, fuorché di verosimiglianza. E dire che la vicenda è vera eccome, ma proprio perché la verità non ha la stessa presa della finzione abbellita e resa commestibile, allora tanto vale abbandonare quello statuto lì per darsi alla semplificazione, ad una cosmesi che renda “riconoscibile” dunque leggibile un dato testo.
Quello della Husson ha degli scompensi proprio nella misura in cui si sente costretta di ritoccare a tal punto una storia così delicata che l’entità dell’argomento, la sua efficacia ne risentono maledettamente. Chiaro, vi è il rovescio della medaglia, l’aspetto positivo nell’abbracciare certi codici, che rimanda insomma all’intrattenimento, perché quando Girls of the Sun ingrana non lo fa affatto male e certe scene di guerra dure e pure sono girate discretamente, con un buon ritmo. Ma ancora prima, quando s’ha da preparare e poi portare a termine una fuga, aleggia quella suspense alla quale solo per distrazione si può restare impermeabili. Senonché lo statement del film è talmente imponente, grosso, da farsi quasi ingombrante, ed il punto è che questo progetto non lo si può immaginare senza; insomma, la competenza non pare sufficiente. Che fare dunque?
Difficile sinceramente dire cosa e quanto sia gratuito, troppo coinvolti come siamo per via della prossimità nel tempo e forse addirittura nello spazio, perché certe istanze, specie nell’ultimo anno, si sono fatte oltremodo incalzanti e, non importa dove sta il cuore in tale questione, non mi pare così scontato essere abbastanza lucidi. Certo non può non fare effetto, nel 2018, una donna che, dopo quello che ha subito, imbraccia un fucile, si mette alla testa di un gruppo di donne come lei e tenta come può di respingere la minaccia, ossia coloro che non esiterebbero un secondo a fare a lei e alle sue compagne addirittura di peggio. È come se si infrangesse la quarta parete e se per alcuni tale deriva potrebbe rivelarsi inconcludente, per altri si tratta di una delle cose più corroboranti alle quali si può assistere in un periodo così concitato come quello che stiamo attraversando.
Però davvero, dinanzi alla pochezza, furba peraltro, proprio perché voluta, studiata a tavolino, di certa scrittura non si può sistematicamente far finta di niente, cercare scuse, ammettere che in fondo Girls of the Sun punta ad altro e in questo “altro” trova il suo compimento. Non lo penso, anzi, la Husson dà l’impressione di essere talmente coinvolta che non deve stupire qualora fosse stata disposta a sacrificare certo spessore al fine di ottenere in cambio questa reazione così viscerale, di pancia, verso la quale punta in maniera palese. Non sta a chi scrive, men che meno in questa sede, stabilire quanto vi sia di giusto o di sbagliato in un simile approccio; sta di fatto che ogni scelta ha delle conseguenze, ed in questo caso abbiamo un film che urla. Urla perché pretende che, finalmente, anche altre voci vengano ascoltate, anche se bisogna capire da chi arrivano tali voci: se si tratta della donna in generale, allora è un discorso, politico peraltro, dunque per certi versi necessario; se, al contrario, è la cineasta donna a volersi far sentire, beh, il discorso cambia. E di conseguenza cambiano le premesse, cambia la percezione di un’opera che, se così fosse, farebbe di un tipo d’impegno specifico la sua ragion d’essere.
Legittimo, tanto più che, lo ripetiamo, è interessante quest’appropriazione del canovaccio hollywoodiano, quello diretto al grande pubblico, per approntare un discorso di ben altra portata. Interessante però da un punto di vista artistico prima ancora che marcatamente politico, ed è questa la lente attraverso cui, malgrado tutto, ci si dovrebbe sforzare di elaborare Girls of the Sun. Così facendo, però, vengono fuori dei limiti, quello di un film modesto che qua e là riesce a farsi seguire, ad essere credibile (sempre secondo tale logica) in quanto prodotto cinematografico, che dunque abbraccia un determinato genere. Ecco, l’accostamento tra forma tradizionale e contenuto quasi inedito ha un suo perché. Non fosse che, come c’insegnano gli antichi, la Forma è Sostanza, e nemmeno la buona volontà di certe attrici possono far nulla dinanzi ad una struttura e una scrittura così approssimative, che non può eccellere a priori.
Se il trucco avesse funzionato come presumibilmente ci si auspicava, oltre che seguire con pizzico di curiosità lo svolgersi della vicenda, avremmo dovuto parteggiare per Bahar e le sue amiche-soldato tanto quanto la Husson, mentre invece si resta lì più che altro perché a quel punto si vuole conoscere la fine della storia, non importa a quante “cadute” bisogna assistere prima d’arrivarci (non ultima la vicenda nella vicenda del figlio di Bahar); ma così facendo si ammette implicitamente che Girls of the Sun ha funzionato su un livello che incidentalmente ha preso il posto di quello più rilevante. Il mezzo che prevale sul fine, la Forma, per quanto non impeccabile, sulla Sostanza. L’abbiamo evidenziato in apertura: pregi e difetti della tipica opera hollywoodiana, da cui questo secondo lavoro della Husson ingloba più i secondi che i primi. Va da sé che paia già uno dei candidati ideali per la Palma.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]
Girls of the Sun (Les Filles du soleil, Francia/Belgio/Georgia/Svizzera, 2018) di Eva Husson. Con Golshifteh Farahani, Emmanuelle Bercot, Erol Afsin, Arabi Ghibeh, Behi Djanati Atai e Zübeyde Bulut. In concorso.