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Cannes 2018, Cold War: recensione del film di Pawel Pawlikowski

Festival di Cannes 2018: storia d’amore travagliata, forse impossibile, nella cornice della Polonia del dopoguerra. Pawlikowski gira un altro film colto dalla venatura melanconica come pochi sanno fare

pubblicato 12 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:25

In una Polonia devastata dalla guerra c’è chi pensa che la ricostruzione passi pure dall’Arte. Ecco allora un corridoio pieno di popolani, intervenuti per essere sottoposti a un provino: Wiktor ed Irena stanno girando il Paese per mettere su una banda di giovani ragazze che sappiano cantare e ballare, oltre che, s’intende, di bella presenza. L’obiettivo è recuperare certi pezzi di repertorio tratti dalla musica popolare, insomma, ridestare lo spirito polacco, antico, per certi versi fiero, e voltare pagina. È qui che Wiktor conosce Zula e subito, si può dire, ne resta ammaliato; non solo un viso meraviglioso ma pure una bellissima voce. Tutto procede, il gruppo gira per la Polonia riscuotendo un certo successo, finché l’Unione Sovietica incombe ed i piani debbono essere rivisti. Ai funzionari di Partito non interessa della cultura e della storia polacca: da quel momento in avanti un solo verbo va trasmesso, la cui lingua è una sola, il russo.

Pawlikowski ancora una volta inserisce i propri personaggi e le loro storie all’interno di un quadro storico preciso, insistendo su quell’apparentemente banale constatazione per cui tutti si è figli del proprio tempo, dal quale si è sballottati senza posa. Le strade di Wiktor e Irena si separano, mentre subentra una Zula sempre più innamorata, forse pure un po’ ingenua, travolta da quell’aria fiera e quello sguardo che ti gela di colui che fino a poco tempo prima era solo il suo maestro. La loro è una relazione viscerale, perciò tormentata, dolorosa. Trasferitisi a Parigi per riparare dal Partito, i due cominciano a vivere da auto-esiliati, ma non tutto è così poetico come sembra, avventuroso nell’accezione più appassionante del termine.

Zula lo dice al suo uomo: «non sei più lo stesso che eri in Polonia». Sarà vero quel che diceva Orazio circa il fatto che muta il cielo ma non l’animo di chi viaggia, ma è evidente che l’aforisma del poeta latino non contempla la fuga coatta, il lasciarsi dietro a malincuore la terra in cui si è nati, che si ama. Ed allora il rapporto si fa burrascoso: i due si prendono, si lasciano, trapiantati in una cornice che evidentemente non gli appartiene. La Francia non è casa, semmai un palliativo per attenuare la sofferenza, finché non se ne viene assuefatti ed allora non fa più nemmeno effetto. Zula quantomeno sembra riuscire a ritagliarsi scampoli di sincera serenità attraverso quell’Arte che l’aveva congiunta a Wiktor, mentre quest’ultimo si è oramai lasciato risucchiare da una spirale dalla quale non può che uscirne con le ossa rotte.

Una parabola struggente, tra melanconia e romanticismo, in cui però Pawlikowski abbassa di un tono rispetto a Ida: Cold War appare infatti meno intenso, sebbene elegante tanto quanto. Quel suo trascinante bianco e nero è una delle cose più giuste, indicate, poiché ci permette di avvertire un senso di smarrimento analogo a quello dei protagonisti, sebbene, per l’appunto, diverso è il grado di coinvolgimento rispetto alle vicissitudini della giovane protagonista del film precedente diretto da Pawlikowski. Al contempo quest’ultimo tende ad essere più epico, per così dire, per via del suo stagliarsi su più anni; vediamo quindi l’ambiente circostante cambiare, non solo in termini di luogo, ma proprio di cultura, abitudini, tutte cose che chiaramente vanno colte tra le righe, dato che di dettagli si tratta. Tuttavia i loro repentini cambiamenti non sembrano essere dettati da ciò che accade loro, bensì da “qualcosa” che hanno dentro e che non gli consente di star bene da soli, figurarsi insieme.

Il regista polacco è un umanista, ad interessargli sono i moti interiori, quelli su cui non si attarda mai più del dovuto, anzi, li avvicina con tatto, delle buone maniere che fanno tutta la differenza di questo mondo. Ma già proprio a partire dalla confezione, quel 4:3 che riduce gli spazi incanalando l’attenzione proprio su di loro, i personaggi, che restano concettualmente in primo piano anche in certe inquadrature asimmetriche, forse soprattutto in quelle addirittura. Ed il bello, non a caso, sta nel non dire cosa consuma Wiktor e Zula, che ora si prendono ora si lasciano ma è chiaro che divisi non possono né debbono stare. Il colto Pawlikowski riesce ad iniettare una verità di fondo che è poi esattamente ciò che conferisce sostanza al racconto, consentendo a noi di capire pur non avendo a ragion veduta chiara ogni cosa.

A voler essere pignoli, Cold War tende a cedere giusto un pochino sul finale, intendendo con ciò in particolare l’ultima battuta, troppo diretta, a tal punto che stona. Ma giunti a quel momento il più è fatto, il cerchio è stato chiuso, e la guerra fredda tra i due risolta nel senso di aver preso consapevolezza che non sia risolvibile. Sì, il loro è un amore impossibile proprio perché ha tutto per funzionare alla perfezione, un paradosso che di eventuali spoiler se ne fa un baffo, poiché certe cose non v’è modo di spiegarle, dare loro la forma fissa, sin troppo rigida di un’illustrazione per iscritto. E per quanto Pawlikowski a questo giro non riesca ad assestare colpi con la stessa muta veemenza di Ida, nondimeno gli va dato atto di aver nuovamente costruito un ritratto decisamente coeso e commovente, anche se magari in formato leggermente ridotto.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Cold War (Zimna wojna, Polonia, 2018) di Pawel Pawlikowski. Con Joanna Kulig, Agata Kulesza, Borys Szyc, Tomasz Kot, Jeanne Balibar, Cédric Kahn, Jacek Rozenek, Martin Budny, Adam Woronowicz e Adam Ferency. In concorso.

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