Cannes 2018, Plaire, aimer et courir vite: recensione del film di Christophe Honoré
Festival di Cannes 2018: Honoré è sparso in frammenti in questo suo ultimo lavoro, i cui sprazzi di lucidità non riescono a riscattarlo da una certa, strana distanza che forse non si vuole proprio fare a meno di mantenere
Jacques si reca a Rennes per lavoro. Non vediamo esattamente di cosa si occupa, anche se di lì a poco scopriamo che è uno scrittore e quella trasferta è motivata probabilmente da qualche pièce teatrale alla quale sta lavorando/collaborando. È qui che Honoré stabilisce parecchie cose, anche se lì per lì non sembra: Jacques s’intrufola in una sala dove stanno proiettando Lezioni di Piano. Nell’oscurità scorge Arthur, anche se forse sarebbe meglio dire che Arthur scorge Jacques; quest’ultimo s’avvicina, la conversazione comincia e via discorrendo. Due gli elementi chiave. In primis il caso fortuito, l’occasione, perché di fatto non solo non stava scritto da nessuna parte che i due s’incontrassero, ma gli eventi che hanno portato a tale incontro sono talmente banali da credere che in fondo vi sia una forza che abbia tramato in tal senso; il secondo sta appunto nell’anti-romanticismo che il regista francese ancora una volta reitera senza sentirsi per nulla in difetto.
Sorry Angel (più efficace il titolo originale francese Plaire, aimer et courir vite) non si presta granché ad essere incasellato. Laddove 120 BPM era imperniato su certe sue istanze politiche, un film insomma militante, ad Honoré di certi discorsi non gliene può fregare di meno, si pensi alla tremenda battuta su ACT UP in proposito: «per un non parigino andare ad un meeting di ACT UP a Parigi è un po’ come visitare le catacombe». Differenti le premesse perciò, pure gli obiettivi se vogliamo, ma il contesto invece è pressoché identico: Jacques è sieropositivo, ma c’è appunto questa discrezione nel parlarne, come se il farlo rinforzasse la malattia, quantunque la condizione sia sotto gli occhi di tutti e di certo non si tenda a nasconderla. Siamo insomma agli antipodi rispetto a Campillo, secondo cui invece dalle «catacombe» quel gruppo doveva uscire eccome, farsi sentire, far capire di esserci, ma soprattutto smetterla di negare a sé stessi quella seppur terribile realtà.
Qui è diverso. A farla da padrone sono i personaggi, ossia la loro tridimensionalità, il loro essere marcatamente imperfetti, dunque in fin dei conti sinceri. A suo modo, è chiaro che Honoré là dentro voglia metterci la vita e non un genere, quasi negando quel cinema che invece è più che presente, nelle aspirazioni del giovane Arthur, nel poster di Querelle che Jacques ha affisso al muro, nel luogo del primo incontro, nella tomba di Truffaut. Dice bene Debruge quando allude a una sorta di sdoppiamento del regista, anche se ci sembra più corretto parlare proprio di frazionamento, dato che Honoré non è solo nei protagonisti ma appunto nelle cose, nella portata delle situazioni. A ben pensarci si ha quasi l’impressione che il film avrebbe potuto prendere il suo nome, tanto sembra non dico rispecchiarlo (manco lo conoscessimo), ma certamente contenerne lo spirito.
Il problema è che questa rispondenza tra autore e opera non si concretizza senza problemi. C’è chi dirà che Sorry Angel è più lungo di quello che dovrebbe, il che forse è anche vero, senonché il vero limite sta nel fatto che Honoré richiede una disponibilità che non da tutti può “pretendere”. Non che non lo sappia, sia chiaro, anzi, ne è perfettamente consapevole; accade perciò che bisogna avere pazienza, in alcuni casi pure troppa, essere indulgenti su certi passaggi in cui incespica, per poi magari assistere a quella scena, a quella linea di dialogo che ti spiazza. Rohmeriano di ferro, si vede che il regista di Les Chansons d’amour (ultima volta per lui in Concorso a Cannes) ha fatto tesoro della lezione del maestro: anche per lui i momenti che contano sono quelli che sembrano non avere rilevanza, l’ordinarietà che apparentemente non fa testo ed invece sposta tutto.
Da questo deriva quel senso di pesantezza che in fondo non si spiega a pieno alla luce di un film che sfugge le etichette, con qualche caduta, senz’altro, ma che aspira così tanto alla verosimiglianza di questi personaggi da alternare ora la commedia, ora il dramma, passando pure per la tragedia se necessario. Serve un pubblico preparato per certe cose, non in termini di nozioni o conoscenza della materia, o per lo meno, non per forza. Serve aver sperimentato certe inquietudini, coltivato certe sensazioni, diversamente ci si limita al pensierino secondo cui si ha di fronte l’ennesimo queer movie, politicamente non così tanto corretto, che strizza l’occhio al solito target. Certo, Sorry Angel contempla il proprio spettatore ideale, non c’è contraddizione rispetto a quanto affermato qualche rigo sopra; solo che, pur mantenendo tale ambizione, non vuole farlo a spese della persona che è il suo autore, della sua integrità (una volta tanto ci si lasci ricorrere a questo termine effettivamente non fantastico).
Lasciamo più che volentieri ad altri il compito d’indagare, qualora non fosse già stato chiarito, sul perché il film sia ambientato nel ‘93; per come la vediamo noi, in un film che si sforza di non essere addomesticato più di tanto, senza dimenarsi ma con non meno risolutezza, certe razionalizzazioni non hanno tutta questa rilevanza. Anzi, Sorry Angel gioca parecchio col non detto, pur essendo un film tutt’altro che avaro di conversazioni, alcune delle quali brillanti («i gay a cui non piacciono i cessi per incontrarsi non hanno mai letto un libro»). Attraversato da inquietudini analoghe a quelle de Lo sconosciuto del lago, Honoré ci si attarda con un approccio più giocoso, malgrado la delicatezza di certi argomenti, il loro non prestarsi a soluzioni così semplici. Interpretando il ruolo dell’eretico o su quella falsa riga lì, insomma, il regista francese non intende prendere le distanze da una comunità, bensì richiamarla all’ordine, magari redarguendola, evidenziando quelli che percepisce come errori, cattive abitudini, presenti allora ma forse a questo punto da cui nemmeno oggi si è del tutto al riparo.
Non per niente Jacques, Arthur e Mathieu impersonano non tanto tre generazioni a confronto, sebbene l’anagrafe suggerisca questo, bensì tre vere e proprie stagioni, o per meglio dire tre diversi modi di vivere, sentire la propria omosessualità rispetto a sé stessi e al mondo. In maniera modulata peraltro, dal più riparato Mathieu, fermo ancora alla contemplazione platonica e che, non a caso, vediamo solo una volta fuori dal proprio appartamento, al quale peraltro ritorna di corsa, al più estroverso Arthur, istrionico e senza inibizioni, forse addirittura avanti alla propria epoca, passando appunto per colui che si pone a metà strada, ossia Jacques. Resta da capire come mai allora si faccia così fatica, perché Sorry Angel con una mano ci tira a sé mentre con l’altra ci allontana. Probabilmente è proprio l’intenzione di mantenere una certa distanza, premessa fondante per certi versi, a contribuire in maniera determinante nel rendere questo film così freddo, solo a sporadici tratti permeabile.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5.5″ layout=”left”]
Plaire, aimer et courir vite (Francia, 2018) di Christophe Honoré. Un film con Vincent Lacoste, Pierre Deladonchamps, Denis Podalydès e Rio Vega. In concorso.