Manuel: recensione del film di Dario Albertini
Variante italiana di coming of age, che però di romano ha solo l’ambientazione. Perché la parabola del giovane Manuel raccontata da Albertini ha carattere più universale, anche e soprattutto in ragione della sua specificità
Manuel è stanco. Come può un adolescente, alla sua età, essere già così provato? Da cosa poi? Sono domande che lasciano il tempo che trovano, oltre che tradire, da parte di chi le pone, una generale assenza rispetto al contesto. Il film di Albertini richiede questa seppur piccola disposizione iniziale, alla quale il giovane Andrea Lattanzi corrisponde con una prova encomiabile. Il titolo, infatti, quello no, non tradisce: lui è il centro, la sua ansia a fronte di uno step successivo al quale non si arriva mai abbastanza preparati. Mi pare che tutta la parabola di questo film, che in fin dei conti ci sottopone giusto un segmento, si possa in qualche modo condensare in questa lezione qui, ossia che a certi appuntamenti ci si arriva sempre impreparati, e che non può essere altrimenti.
Sia chiaro, non che Albertini intenda impartire alcuna lezione; è la vicenda, tuttavia, a dirci qualcosa, appunto malgrado l’intervento di chi l’ha risistemata per poi mostrarcela. Manuel è appena uscito da una casa famiglia; la madre è in carcere, il padre non si sa. La sua profonda insofferenza emerge subito, tanto che non gli pare vero di potere finalmente uscire da lì, non dover dare più conto di ogni suo movimento a dei guardiani che fingono interesse, almeno dalla sua prospettiva. Basta prendere ordini, essere rimproverato per cazzate, dover rispondere di quelle altrui e via discorrendo. «Me so’ rotto er cazzo», dice il giovane, perché appunto quella pressione per lui è diventata insostenibile: Manuel è il centro del proprio mondo, com’è per tutti i ragazzini, solo che lui è a un passo da quell’altro stadio, la maturità, i cui crampi di lì a breve si faranno sentire con un’intensità se vogliamo maggiore rispetto a tanti altri suoi coetanei.
Manuel finalmente esce da quella gabbia fatta di gente che «gli sta sul collo». Va in giro, incontra un tizio a cui non parte l’Ape, lo aiuta, si prendono un caffè, ballano, c’è pure una tipa, e poi si salutano. La ragazza in questione viene da un altro mondo. Lei può scegliere di entrare ed uscire da quel contesto lì, anzi, l’entrarci le fa bene, tra un provino che va male e un altro; perché sì, questa ragazza che si dà al volontariato è anche un’aspirante attrice. Ma che ne può capire Manuel? Catapultato in questo scenario qui tutto gli sembra nuovo, diverso, strano. Però ci prova, quali che siano le stronzate che l’hanno portato a quel punto. Una ragione, ed effettivamente non gliene si può fare una colpa, è la madre: non si sa perché si trova dietro le sbarre, ma nel quadretto che si è fatto Manuel c’è anche lei. Dev’esserci.
Ed allora emerge la scappatoia: per far sì che quel desiderio di un’esistenza un po’ più ordinaria si concretizzi tutto dipende da lui. Dapprima Manuel non lo capisce, non fino in fondo almeno: messo davanti all’evidenza, ecco allora il rumore, fortissimo, che toglie il fiato. Manuel è incastrato tra due possibili vite, ma l’impressione è che nessuna delle due sia la sua, quella che realmente lo aspetta. Ovviamente, Deo gratias, non sappiamo nemmeno noi cosa accadrà, che fine ne sarà di ogni cosa, sebbene il tarlo, a cose fatte, si sia oramai insinuato e a noi non resta che respirare affannosamente con Manuel.
L’opera di Albertini è rispettosa della storia che racconta a 360 gradi: lo è verso i suoi protagonisti così come nei riguardi dello spettatore. Non ci gira attorno, subordinando la macchina alla storia e non viceversa, perché quella di raccontare è la sua principale preoccupazione. Poi viene il rendere credibile tutto ciò, e qui non c’entra il fatto che la storia di Manuel sia o meno quella di altri ragazzi della sua età: c’entra che Andrea Lattanzi si muova come è giusto che debba muoversi, che i suoi occhi gelidi, talvolta spiritati, non siano mero vezzo, come se stesse ripetendo a pappagallo delle battute. Oppure quando deve fare silenzio ed affidarsi alla sua aria stralunata, mica aggiungere o togliere qualcosa, limitandosi a ciò che va fatto affinché noi, che di lui sappiamo poco e che ad altre condizioni potrebbe perciò interessarci ancora meno, possiamo prender parte ad una condizione, un momento di défaillance che altrimenti non si spiegherebbe.
Questa economia, sia a livello attoriale che di scrittura, porta in dote quasi solo vantaggi. Gli orpelli ci piacciono, mica no, ma siccore est modus in rebus, non significa che ogni singolo racconto vada agghindato per amore di farsi guardare. Manuel è un film apparentemente semplice perché chi lo ha fatto lo fa sembrare semplice, non perché, banalmente, tenda a semplificare. Per questo, come accennato sopra, assistiamo ad un segmento e solo a quello; sarebbe stato troppo pretenzioso, di certo inopportuno, voler avere l’ultima parola su una vicissitudine come questa. Tanto che l’impressione è che ci si potesse addirittura fermare un attimo prima, senza nemmeno venire a conoscenza di quella decisione. Che tuttavia non è l’ultima, ma solo un’altra delle tante che Manuel da quel momento in avanti dovrà prendere; e soprattutto, cosa ancora più difficile, alle quali dovrà tenere fede.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]
Manuel (Italia, 2017) di Dario Albertini. Con Andrea Lattanzi, Francesca Antonelli, Renato Scarpa, Giulia Elettra Gorietti, Raffaella Rea, Giulio Beranek, Alessandra Scirdi, Monica Carpanese, Luciano Miele, Alessandro Di Carlo, Frankino Murgia, Alessandro Sardelli, Manuel Rulli, Loretta Rossi Stuart, Manuela Ruiu, Simona Sabuzi, Fabrizio Orsomando, Aline Pilato, Rocco Passarella, Tommaso Antonelli, Alessandro Di Paolantonio, Giuseppe Leonetti (II) e Loredana Carrera. Nelle nostre sale da giovedì 3 maggio 2018.