Noir in Festival 2017: Handia – recensione in anteprima
Monster movie tra lo storico e il fiabesco, Handia dice più di quello che è lecito supporre attraverso la storia di un gigante e suo fratello
A metà ‘800 in Europa sta accadendo di tutto. Non sono esenti i Paesi Baschi, dato che in Spagna si consuma la guerra tra i Carlisti fedeli alla Monarchia e chi invece sostiene il liberalismo, tra cui la stessa Regina Isabella II. Un periodo fondamentale non solo per quella regione o per la Spagna, bensì per l’Europa tutta, ultimo iato tra una Cristianità morente ed il sistema che oramai era pronto a soppiantarlo. Leitmotiv perciò di quel genere che cade sotto il cappello del western, denominazione appropriata anche per Handia, film basco parlato in basco, che ha potuto contare su un budget atipico ma pur sempre ridotto rispetto alle premesse.
Ai due registi, Aitor Arregi e Jon Garaño, quanto scritto sopra serve però da sfondo per raccontare qualcos’altro, ossia una storia che a sua volta si muove tra realtà e finzione. In quel periodo fece infatti scalpore la notizia di un giovane che cresceva a dismisura, tanto da essere chiamato «colosso»; si tratta di una delle prime forme accertate, a quanto pare, di gigantismo. Ma Handia è forse anzitutto la storia di questi due fratelli, Martin e Joaquín, sballottati da eventi e contesto mentre cercando di divincolarsi, non di rado goffamente.
Film d’epoca perciò, in costume, certo. Nondimeno universale, nella peggiore delle ipotesi attualissimo, dato che anche noi, oggi, ci troviamo nel pieno di una fase di transizione tra ciò che è stato e ciò che sarà o potrebbe essere. «Non importa cosa si troveranno davanti: l’importante è ciò che la gente immagina», ripete l’impresario di Joaquín al fratello, preoccupato che le attese non venissero poi malamente smentite dai fatti. C’è qui già, in nuce, lo scontro tra due civiltà, tra due modi d’intendere pressoché ogni cosa, tra chi avrà posto nel mondo che viene e chi invece ne resterà irrimediabilmente tagliato fuori. La logica dello spettacolo prende il sopravvento: «chi pagherebbe per vedere un gigante?», sorprendendo un povero contadino abituato a farsi il mazzo per l’indispensabile. Ed invece il Vecchio Continente pullula di abbienti che i loro soldi per assistere all’insolito li caccia fuori eccome; in questo anticipando, se vogliamo, l’avvento del Cinema quale soluzione popolare, a buon mercato, almeno agli albori, per meravigliarsi, per assaggiare in anteprima e a piccole dosi i doni che la Scienza promette di elargire da lì in poi.
Eppure la stessa Scienza rimane incredula nel constatare la situazione di Joaquín: incuriosita, lo studia come un fenomeno, dimenticando chiaramente la persona, con la freddezza tipica di chi è abituato a trafficare coi resti dei cadaveri (d’altra parte pure in questo caso si dovette inevitabilmente aspettare che il soggetto stirasse i piedi). I due registi tuttavia ne hanno per tutti, non solo per la Scienza; si pensi alla scena in cui una giovane Regina Isabella vuole vedere coi propri occhi questo gigante di cui tanto si parla: non le basta però l’altezza, no… vuole anche la proporzione. Perciò, in una delle scene emotivamente più forti di un film di suo già abbastanza emotivo (nel bene e nel male), a Joaquín non resta che calarsi le braghe dinanzi al Potere. Letteralmente.
È vero, forse i due registi non riescono a trarre il massimo dal seppur centrale rapporto tra i due fratelli, quantunque l’ultima inquadratura del film, che ha per soggetto proprio loro due, stenda. Tuttavia la complessità della storia che intendono raccontare alza il coefficiente in maniera significativa, senza però che si abbia pressoché in nessun caso l’impressione che qualcosa sfugga platealmente di mano. Anzi, emerge una padronanza encomiabile, specie nell’introdurci in questa vicenda, facendo il giro largo ma non larghissimo, quanto serve per farci arrivare pronti all’appuntamento con il vero fulcro. Se fin lì non ci perdiamo è certo merito di chi ha scritto e girato questa prima parte, per forza di cose sintetica ma non per questo deficitaria.
Un monster movie con venature fiabesche che per certi versi fa sicuramente eco all’Elephant Man di lynchiana memoria, mentre, per rifarci a qualcosa di più fresco, a suo modo più efficiente, per non dire pertinente, del patinato, compentente e piacione The Shape of Water. Handia è per forza di cose meno appariscente, quantunque non gli manchi la fotografia, i cui riferimenti oscillano tra le penombre metafisiche di Goya e le evocative panoramiche dei classici western; ben meno rarefatto, meno conciliante nell’accezione nobile del termine, è piuttosto il racconto, così come il soggetto. Eppure il film di Arregi e Garaño non rinuncia a farsi a propria volta quanto più mainstream possibile, solo solo per via del personaggio di Joaquín e della sua parabola, profondamente umana a dispetto della sua peculiarità (o forse proprio per questo).
Anche in questo caso il mostro non è un vero mostro, bensì mostruoso è l’occhio di chi osserva attraverso la lente di un tempo e di un’impostazione che coltiva un raccapricciante rapporto con l’anomalia, proprio perché tutt’altro che spontaneo. È il passaggio da un mondo che non privilegia un senso o una facoltà in particolare, abbracciandoli tutti, talvolta anche suo malgrado, ad uno che idolatra la vista, la quale, esasperata, muta in perverso voyeurismo. Handia mette in discussione, magari inconsapevolmente, lo statuto del vedere, del toccare, sorto dalle ceneri del «se non vedo non credo» di cui al Vangelo, che è diventato il vero dogma del secolo successivo, il XX. Lo fa attraverso un episodio assurdo, particolare, tra cronaca e leggenda, il che, ai nostri occhi, basterebbe a squalificarlo in quanto non del tutto “realistico”. Appunto insulso da parte di un’epoca che funziona come un San Tommaso al contrario: più vede e meno crede.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
Handia (Spagna, 2017) di Aitor Arregi e Jon Garaño. Con Eneko Sagardoy, Ramón Agirre, Aia Kruse, Joseba Usabiaga, Iñigo Azpitarte ed Iñigo Aranburu.