Fuocoammare accende luci positive sul cinema italiano
La vittoria di “Fuocoammare” sveglia, come seconda vittoria di Gianfranco Rosi a Berlino dopo il Leone a Venezia, il desiderio di un cinema che sappia documentare meglio il nostro cinema, forse incapace di dare ritratti profondi e persuasivi, in cui è urgente immettere occhi acuti, denunce vere
Avevo un presentimento in un mio articolo precedente, in cui citavo il film di Gianfranco Rosi, “Fuocoammare”, Cinecittà Luce. “Sentivo” che andava a Berlino con un film dal tema importante, però inflazionato dalle tv, che aveva bisogno di un racconto capace di andare in profondità, al di là delle immagini e delle parole dei media troppo presi dall’attualità per rappresentare le tragedie delle migrazioni e dei suoi retroscena.
E il film, documentario costruito e non affidato a riprese di tipo banalmente giornalistico, ha vinto al prestigioso Festival di Berlino. Ne sono contento. Non ho ancora fatto in tempo a vederlo completo, ma provvederò presto. Ne ho grande desiderio. Rosi fa parte di quel gruppo di autori che ho avuto modo di seguire da quando mi sono occupato a lungo (come consulente e poi direttore artistico) del Festival Libero Bizzarri, dedicato al documentari da vent’anni. Autori che prima quasi mai esistevano, soffocati dal disinteresse o dalla genericità delle ispirazioni e dalle incertezze delle produzioni.
Rosi ha vinto a Venezia e ora a Berlino, una cosa rara e una cosa importante. I documentaristi di qualità, attenti a nuove formule narrativi e a stili secchi e ben calibrati, possono considerarlo un punto di riferimento, un modello; il successo in casi come questi assume una importanza straordinaria, una strada da percorrere.
Le difficoltà del cinema di fiction, comici o comunque sia, hanno bisogno di una scossa, dopo che la grande lezione di concretezza del neorealismo si è smarrita dopo la rinascita della commedia italiana, documenti e non documentari sulla realtà del nostro Paese avviata a una crisi lunga e vischiosa.
La commedia italiana anche oggi risulta vitale, vedendo i film di Germi, Risi, Comencini, Monicelli e molti altri, poichè in essi fiorisce un prepotente bisogno di guardare in faccia, e dietro le quinte, la nostra società, troppo disposta a coprirsi dietro formule magiche delle risate che tutto spesso dissolvono nel nulla, neanche appagante.
Le vere risate e i veri sorrisi sono, invece, il biglietto da visita, il miele per attrarre il grande pubblico e poi rovesciargli addosso analisi e giudizi, forti, severi.
Un esempio. Ho rivisto di recente per un mio lavoro in corso, “I magliari” di Francesco Rosi, in parte omonimo di Gianfranco Rosi, il vincitore di Venezia e Berlino. Come ricorderà chi lo ha visto, “sembra” una commedia non dico comica ma satirica, tesa “anche” al divertimento sui venditori clandestini di stoffe italiani in trasferta in Germania; e va oltre.
La presenza di Alberto Sordi è caratteristica di questa impronta, si ride grazie a lui e grazie alla sua straordinaria verve (indimenticabile la scena i cui Sordi imita il camorrista contrabbandiere che lo minaccia con la pistola). Ma non è così. Sordi porta una serie di pennellate irresistibili che, grazie a lui, si trasformano in denunce potenti, contro gli italiani brava gente che non sono brava gente ma delinquenti scatenati, esperti del raggiro e nell’abuso senza scrupoli. Il cinema italiano deve molto a questo tipo di documento indiretto che non solo denuncia ma mira a creare una coscienza avvertita, contro le apparenze, le superficilità nel sorvolare, andare oltre, liquidare tutto con una risata o i fuochi d’artificio dei sorrisi.
Ecco, forse si sta avviando un processo di rinuncia alla leggerezza, al comico che non da ridere e non insegna, alla commedia fatua che gioca e punta a usare (male) i talenti che continuo a credere nel nostro cinema ci sono e vengono maltrattati o ignorati.