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Venezia 2017, First Reformed: recensione in anteprima del film di Paul Schrader

Festival di Venezia 2017: uno dei lavori migliori nonché più significativi nella filmografia di Paul Schrader, con un notevole Ethan Hawke, anch’egli ai massimi livelli

pubblicato 31 Agosto 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 02:45

C’è un libro capitale per coloro che s’interessano alla Settimana Arte anche solo in maniera relativamente marginale: s’intitola Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer. A scriverlo è Paul Schrader, uno dei cineasti più significativi del secondo ‘900, che ha firmato sceneggiature del calibro di Taxi Driver e Toro scatenato, accumulando anche un discreto curriculum di regie, tra cui la più nota è certamente American Gigolò. Ma al saggio di cui sopra che bisogna necessariamente tornare per quanto riguarda First Reformed, ultimo suo lavoro in Concorso a Venezia quest’anno. Toller (Ethan Hawke) è un ex-militare divenuto sacerdote della prima chiesa riformata d’America, oramai duecentocinquant’anni or sono. E sembra di assistere ad una sorta di riedizione de Il diario di un curato di campagna di bressoniana memoria, già in premessa, dato che il film si apre proprio sulla ferma intenzione da parte di Toller nel compilare per un anno un diario. Senza cancellare alcunché, tenendo pure quegli stralci di cui a posteriori potrebbe pentirsi.

La cronaca di un percorso spirituale perciò, che è per lo più una vera e propria mutazione, quasi che il nostro avesse fatto registrare un vero e proprio cambiamento di personalità. Ma Schrader qui sfoggia una precisione ed un’acutezza da fare invidia, dunque niente botti o uscite sopra le righe. Tutto First Reformed è attraversato da quest’aura misticheggiante, quantunque il processo sia decisamente meno aleatorio; uno sviluppo, o per meglio dire un’involuzione, che si consuma ad un livello più percepibile, mentre veniamo messi a parte di certi pensieri che Toller va coltivando, nonché alcune azioni che senz’altro tradiscono il cambiamento in atto. Eppure tutto rimane abbastanza sfuggente, se non, come appena evidenziato, nelle implicazioni più immediate: capiamo il cosa, in parte il come, ma in nessun caso il perché. Forse che Toller stia perdendo la fede? O invece s’appresta a compiere lo step successivo, quale che sia? Oppure ancora la sua è solo una fase?

Tutte domande a cui nemmeno Schrader, giustamente, intende dare risposta. Nonostante ciò, di certo First Reformed non si limita a navigare verso un altrove accessibile a pochi, accostandosi ad un caso di studio non solo interessante ma piuttosto attuale. Toller viene infatti avvicinato da un attivista che sta vivendo un periodo delicato; la moglie Mary (Amanda Seyfried) informa il pastore del fatto che il marito non sente ragioni e vuole parlare solo con lui. Toller non rimane indifferente dinanzi ai discorsi del giovane, che gli parla di salvaguardia dell’ambiente, del fatto che l’uomo stia facendo tanto, troppo male al pianeta e via discorrendo su questa falsa riga. Viene agganciato, non si sa esattamente in quale momento, ed allora la sua vocazione viene scossa, quasi come se fino a quel punto non l’avesse vissuta fino in fondo. Infatti, come conciliare il comando di affidarsi a Dio totalmente alla necessità, talvolta pressante, di far muro, di non restare a guardare rispetto per esempio alle innumerevoli forme d’ingiustizia in questo mondo? In altre parole, quale il discrimine tra volontà e grazia divina? Bam!

Chi ti parla oggi di certe cose? Chi le affronta di petto, nonché con tale libertà come lo Schrader di questo gioiellino che è First Reformed? Difficile trovarne. Questa sua ultima fatica rappresenta il film di una vita per il regista, quello su cui evidentemente ha avuto modo di ragionare di più nel corso della sua carriera, e che sicuramente ha subito tante di quelle modifiche nel corso del tempo che avrebbe poco senso tenerne traccia. Tanto che il viaggio introspettivo del personaggio di Hawke potrebbe benissimo essere analogo a quello del regista, che per forza di cose dev’essersi trovato davanti a simili, capitali quesiti nel corso della sua vita. Diversamente non puoi tratteggiare con altrettanta verosimiglianza e potenza certe forze che si agitano nell’animo di un uomo alle prese con la propria missione, vera o solo immaginata. No, nemmeno se fossi il più grande di tutti.

Questa discesa e (forse) risalita di Toller è però fine nel duplice senso di sottile ed elegante, non sofisticata. Il nostro non smette di credere, anzi, se non altro perché non sappiamo nemmeno con quale intensità credesse prima d’intraprendere questo viaggio per lui inaspettato; a mutare è la prospettiva, con tutte le radicali perplessità che sorgono in capo all’inconciliabilità tra le posizioni alle quali ci si aggrappava prima che tutto venisse stravolto ed il nuovo status quo. Ad alcuni potrà sembrare pure forzato questo passaggio da pastore di anime a difensore del creato che opera lentamente Toller, ma non lo è affatto. Non solo: è pure in linea coi tempi, ossia un periodo storico in cui è prevalente l’idea di un uomo sfruttatore sconsiderato e illegittimo di un pianeta che non gli appartiene. Da qui le ricerche del pastore su come portare a termine attentati dinamitardi, dapprima per mera curiosità, quando ancora il seme non ha attecchito del tutto; finché quell’idea, dapprima troppo tremenda anche solo per poterla pronunciare, non diventa un imperativo morale: in entrambi i casi i dubbi sono micidiali.

L’anno scorso fu presentato proprio qui a Venezia American Anarchist, interessante documentario che attualmente si trova disponibile nella libreria Netflix: anche in quel caso emerge come il contemplare una possibilità così estrema abbia a che vedere con l’alienazione, il rintanarsi in sé stessi. A Toller gli viene pure fatto notare di non sembrare più lo stesso, più magro, emaciato, taciturno, alle prese con l’alcol. Quando il responsabile della sua congregazione, una cosa molto americana finanche nella denominazione (Abudant Life, dal Vangelo), arriva addirittura a negare il cambiamento climatico, opponendo che magari la volontà di Dio possa al peggio essere proprio questa, ossia l’estinzione o per meglio dire purificazione del genere umano (non sarebbe la prima volta, aggiunge), ebbene, il pastore non ci sta: può Dio volere così male all’uomo, tanto da condannarlo ad una pena così grande? Eppure Toller è lo stesso che vuole farsi esplodere in pubblica piazza.

Incoerente? Ma la coerenza è del demonio; il combattuto sacerdote, qui magistralmente interpretato da un Ethan Hawke in gran spolvero, è solo un uomo. Un uomo alle prese con l’assurdità di un mondo sempre più inutilmente complicato; o almeno, questo si ricava dal film. Certo, da un momento di défaillance come questo ne può derivare una tragedia, ma guai a cassarla come semplice anomalia, tipico trattamento riservato, per pigrizia, per comodità o per entrambe, ai vari attentati di stampo terroristico che vanno miseramente avvicendandosi negli ultimi anni. Schrader attinge a quei registi che con ogni probabilità ne hanno nutrito aspirazioni prima e lavoro poi, ossia i tre citati in apertura; medesimo il tono austero in First Reformed, la profondità della condizione umana trattata, con in più un tocco à la Bergman che non guasta. Il film di una vita per il regista di Mishima, che va citato non a caso. Un film da ammirare.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7.5″ layout=”left”]

First Reformed (USA, 2017) di Paul Schrader. Con Ethan Hawke, Amanda Seyfried, Cedric the Entertainer, Michael Gaston, Mahaleia Gray, Philip Ettinger, Victoria Hill, Elanna White, Bill Hoag e Frank Rodriguez. In Concorso.