24 Wochen (24 Weeks): recensione in anteprima del film in Concorso a Berlino 2016
L’aborto dal punto di vista di una donna in carriera, messa alle strette da una situazione limite. 24 Weeks denota sprazzi di lucidità, vanificati però da una scrittura troppo didascalica
Astrid è un personaggio televisivo, comico di professione. 24 Weeks si apre con un suo monologo, lei vestita di tutto punto, in cui sottolinea ironicamente che nemmeno la gravidanza in corso può tenerla lontana dalle scene. Il suo compagno è anche il suo manager, hanno già una figlia, la carriera procede a gonfie vele e tutto sembra andare per il verso giusto. Così sembra.
Delle analisi diagnosticano al nascituro, un maschietto, la sindrome di Down. È qui che il mondo crolla addosso a Astrid e Markus. La domanda, tremenda, è secca: tenerlo o non tenerlo? In Germania la Legge, a certe condizioni, contempla la possibilità d’interrompere la gravidanza praticamente fino al nono mese. Perciò i due hanno tempo per decidere, ragionando per quanto possibile sulle implicazioni di entrambe le scelte. Ma il peggio arriva poco dopo.
È un calvario, inutile nasconderlo. Già il solo comunicarlo a parenti e amici stretti si rivela un’impresa: come reagiranno? C’influenzeranno? Sono i quesiti che senz’altro sfiorano la mente dei due futuri genitori. L’argomento è delicato e, come tutti gli argomenti significativi, se non addirittura decisivi del nostro tempo, il rischio di scadere nella sterile diatriba ideologica è sempre dietro l’angolo. 24 Weeks non si sbilancia più di tanto, a prescindere dalla risoluzione finale; che tenga o meno il bambino in tal senso rileva poco, malgrado a livello narrativo la scelta più sensata sarebbe una, quella irrevocabile.
Il film della Berrached ha un maggiore impatto più per i dilemmi cui dà adito, anche morali, per forza. Solo in chiusura, semmai, si tratta di prendere una posizione; mentre la vicenda si sviluppa tocca seguire da vicino i conflitti di questi personaggi, mettendo da parte gli ovvi pregiudizi. È altresì vero che 24 Weeks è molto schematico nel passare in rassegna una parziale casistica; vero è che è un’opera che quasi si nega alcun merito strettamente cinematografico, sebbene sconfini di più rispetto a quanto non possa fare un prodotto televisivo, consegnando sul finale un’inquadratura piuttosto forte, che farà discutere (e nei riguardi della quale ci schieriamo a favore, non solo perché tutt’altro che gratuita).
Persino strappalacrime, se proprio si vuole, declinato al femminile; su questa implicita ed ambigua inversione dei ruoli la Berrached trova un terreno entro il quale non senza rischiare qualche strafalcione. «Tanto alla fine si fa come dici tu, come sempre», dice sommessamente Markus ad Astrid; ed infatti è lei l’elemento dominante nella coppia: si fa sesso quando dice lei, s’invita la madre a casa quando passa a lei per la testa e, manco a dirlo, è lei che prende la decisione sull’uccidere o meno il piccolo. Rivendicazione femminista? Se c’è, ma non ne siamo convinti, avviene per riflesso incondizionato, quasi che oramai fosse parte integrante di una forma mentis che ha superato i vecchi schemi. Tanto che si ha da ridire pure su un accenno di senso di colpa: ancora con questi scrupoli da retaggio di tempi cristiani?
Come già evidenziato, c’è una scena che farà discutere, più che altro sull’opportunità o meno di mostrarla (e già si sentono le urla al grido di «pornografia!»); tuttavia chissà se ci si soffermerà sulla tristissima sequenza in cui una donna illustra la procedura post-aborto, qualora Astrid optasse per andare sino in fondo. C’è tutta la schizofrenia e l’alienazione della nostra epoca: la donna raccomanda ad Astrid di farsi una foto col bambino che dovrà essere ucciso in pancia tramite puntura, per poi essere dato alla luce – diversamente, date le 24 settimane, rischierebbe di nascere vivo. C’è tutto un rituale macabro, fatto di foto, di abbracci e affettuosità col cadavere del piccolo che dà parecchio da pensare.
Ecco, se solo la Berrached fosse riuscita ad incanalare il tutto attraverso un film drammaticamente bilanciato, allora sarebbe stato un successo. Così com’è si avverte la vicinanza all’argomento, forse addirittura la sensibilità nel trattarlo. Ma proprio quest’ultima fattispecie finisce col ritorcersi contro, perché lo sviluppo viene asservito al messaggio e non alla storia, alla dinamiche dei e tra i personaggi. Un metodo, questo, che al cinema implica sempre scompensi, e 24 Weeks non fa in alcun modo eccezione. Ed è davvero un peccato, perché l’urgenza del film c’è e l’idea di inserirlo quasi provocatoriamente in Concorso un suo perché ce l’avrebbe eccome.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
24 Wochen (Germania, 2016) di Anne Zohra Berrached. Con Julia Jentsch, Bjarne Mädel, Johanna Gastdorf, Emilia Piefke e Maria Draus.