Cannes 2017: 120 battements par minute – recensione del film di Robin Campillo
Festival di Cannes 2017: la diffidenza e la paura in questo spaccato duro e onesto di Robin Campillo. 120 battements par minute ci mette difronte ad argomenti capitali ripercorrendo alcune tappe di ACT UP, gruppo di attivisti francesi composto per lo più da sieropositivi
Di primo acchito può sembrare un film preminentemente politico, 120 battements par minute. D’altronde quale non lo è? Quello di Campillo tuttavia può essere così etichettato per una ragione più immediata, dato che si sofferma sul gruppo di attivisti operanti negli anni ’90, ACT UP, nato a New York nell’87 e poi portato pure a Parigi due anni dopo. È nella capitale francese che si svolgono gli eventi del film, che inizia con questo montaggio alternato alla Rashomon, in cui viene rievocata l’ultima protesta del gruppo, durante la quale alcuni membri sono saliti sul palco ed hanno lanciato un gavettone di sangue finto ad uno dei rappresentanti di una casa farmaceutica. Vedete, allora siamo nei primi anni ’90 e la comunità gay cerca in tutti i modi di eludere la questione AIDS, che al di fuori viene vista come la malattia appannaggio proprio di omosessuali, drogati e prostitute.
In ACT UP si radunano per lo più persone sieropositive che portano non semplicemente la loro testimonianza, bensì si spendono concretamente al fine di sensibilizzare sulla questione. Un film militante perciò, certo, ed in fondo l’unico limite potrebbe essere questo – il regista peraltro ne ha fatto parte a sua volta. Nondimeno l’onestà e la durezza con cui viene maneggiata la materia pongono il tutto su un livello diverso; Sean, da un determinato momento in avanti protagonista più o meno assoluto, ad un certo punto recita l’odiosa messa in scena della malattia quale catalizzatore di forze sconosciute fino ad allora, che gli ha cambiato la vita e in meglio, grazie alla quale riesce a vivere tutto pienamente. Salvo un istante dopo sbottare a ridere e dire che no, non cambia nulla, se non, come gli suggerisce qualcuno, il fatto che davvero la mattina si fa più fatica ad alzarsi.
Diviso sostanzialmente in due parti, la prima metà più pesante, verbosa, un dazio che forse era comunque il caso di pagare perché non si può dare per scontato che tutti sappiano. Allora ci si trova ad assistere a queste assemblee di gruppo in cui si dibatte, ci si scontra, si irrompe negli uffici delle case farmaceutiche e si combina danno. Nella seconda avviene l’impennata emotiva, l’attenzione si sposta dal generale al particolare, ed allora al centro vi è la relazione tra Nathan e Sean, che si dipana mentre la malattia di quest’ultimo va degenerando. Eppure non è solo qui che emerge il lato più umano di questa parabola così forte, diretta.
120 battements par minute è uno spaccato molto consapevole; consapevole di un percorso e della storia che la comunità in questione oramai ha alle spalle. Che ci fu un periodo in cui molte cose. che ora tanti danno per scontate, un tempo non lo erano, quando la minoranza non era semplicemente numerica ma anzitutto culturale. C’era un sottobosco da far conoscere e quasi nessuno, non senza ragioni a dire il vero, disposto ad ascoltare; anche tra gli omosessuali stessi, s’intenda. Anzi, e Campillo non lo tace, era soprattutto tra loro che vigeva questa sorta di silenzio voluto, loro per primi, nella maggior parte dei casi, che si giravano dall’altra parte quando venivano evocati temi come la malattia e tutto ciò che comporta.
ACT UP diventa perciò rifugio per tutti questi reietti, anche entro “mura amiche”, i quali si trovano a combattere sotto ogni fronte: la malattia, le case farmaceutiche, l’indifferenza laddove non la scarsa tolleranza di chi “sta fuori”. E chi sono questi? Essenzialmente noi. Non tutti, ma la maggior parte di noi senz’altro. Perché sì, certamente la prospettiva è quella di chi, omosessuale, si è trovato ancora più a disagio in una situazione limite come questa. Ma una delle questioni più significative che solleva Campillo riguarda il nostro rapporto coi malati prima ancora che con la malattia. C’è un momento in cui qualcuno fa notare che i poliziotti hanno indossato i guanti per toccare i manifestanti, mentre Nathan ribatte che la polizia indossa sempre i guanti in situazioni del genere, ma qualcuno lo incalza dicendo che senz’altro avevano paura comunque. C’è questa cultura del sospetto, reciproca, e a dire il vero non del tutto rientrata, nemmeno oggi che sembra si siano aperte intere voragini e non semplici spiragli.
Campillo non ha problemi a “sporcare” il proprio film, anzitutto riempiendolo di sangue, quantunque finto o ricostruito in post, come quando assistiamo ad una panoramica dall’alto della Senna, in cui scorre per l’appunto sangue anziché acqua. Ci accorgiamo, o quantomeno dovremmo accorgerci che qualcosa non va e che il regista ha lavorato bene ogni qualvolta che avvertiamo l’importanza, quasi la pesantezza del contatto; questo è infatti 120 battements par minute, un film di sangue e contatto. Prima di esplodere nell’amplesso sessuale, in quel rito che a certe condizioni non è facile vivere in maniera del tutto equilibrata, basta anche una mano sulla spalla oppure sul viso. Questo la dice lunga su chi oggi, ma forse da sempre, sono i veri outcast di ogni società, ossia i malati, specie quelli le cui malattie sono contagiose.
Ma in generale il film punta il dito proprio sull’orrore che ciascuno di noi ha tendenzialmente verso il malato quale portatore sano di morte, negazione di tutto ciò per cui riteniamo valga la pena vivere, a prescindere dalla possibilità che venga messa a repentaglio la nostra di salute. Se andiamo a ritroso nella storia, ogni Civiltà ha dovuto confrontarsi con questo problema, e la sua grandezza, tra le altre cose, andrebbe misurata anche in base a come ha fatto fronte a tutto ciò, insomma come ha trattato i propri malati. L’ultima parte di 120 battements par minute è struggente proprio per questo: tutto perde senso, dignità finanche, specie le cose che più ci gratificano e/o realizzano, quando si ha la consapevolezza di spegnersi più velocemente del previsto. Ed è inutile prepararsi a certe cose, sia perché spesso e volentieri i consigli non sono buoni come qualcuno vorrebbe farci credere, sia perché ci si può forse preparare a morire ma di certo non a soffrire; per questo, ahinoi, la migliore scuola è la sofferenza stessa, quella che però nessuno di noi vorrebbe frequentare.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
120 battements par minute (Francia, 2017) di Robin Campillo. Con Adèle Haenel, Yves Heck, Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Emmanuel Ménard, Antoine Reinartz e François Rabette. Concorso.