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Escobar: recensione in anteprima

Escobar di Andrea Di Stefano è un thriller competente ma al contempo modesto rispetto a certe premesse, Benicio Del Toro nei panni del celeberrimo narcotrafficante colombiano su tutti

pubblicato 20 Agosto 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 07:46

Escobar non è un biopic convenzionale, a tal punto che si potrebbe tranquillamente dire che non è affatto un biopic. Andrea Di Stefano è certamente affascinato dalla figura del narcotrafficante colombiano: nel bene e nel male, ne esalta il ruolo da pater familias che ha tutto sotto controllo (o almeno crede), al quale i suoi sottoposti obbediscono ciecamente. In realtà però Paradise Lost non solo è il titolo originale ma anche il più incisivo, dato che questa in realtà è la storia di Nick (Josh Hutcherson).

Giunti in Colombia per sospendere la vita ed abbandonarsi ai ritmi più pacati di un luogo per lui da sogno, Nick e suo fratello non pensano ad altro che surfare, guadagnandosi da vivere mediante dei lavoretti. In cantiere c’è l’idea di quello che ha tutta l’aria di essere un chiringuito, ma ci si mette poco a capire come funziona da quelle parti: accampati presso una spiaggietta, vengono visitati dalla microcriminalità locale, dei bulletti che non vogliono gringos in mezzo ai piedi.

Nel frattempo Nick conosce Maria e se ne innamora. Si dà il caso che quest’ultima sia anche la nipote del vero signore della zona, se non addirittura qualcosa di più. Il film di Di Stefano è un onesto ma modesto thriller, che da questo momento procede senza far registrare alcuna impennata. Il passaggio da una vita da nomade, in cui il tempo si è fermato, all’assimilazione in questa nuova famiglia lascia un po’ così. Tutto comincia con una mega-festa, in cui Maria presenta il suo ragazzo americano allo zio Pablo (Benicio del Toro): segue ramanzina preventiva del tipo «ma tu che intenzioni hai con mia nipote?», e subito il bivio al quale le circostanze hanno posto l’ingenuo Nick.

Sarà perché la figura di questo controverso personaggio in parte lo impone, sarà perché è effettivamente meno complesso adeguarsi a certi canoni, ma il manicheismo di fondo non ammette replica: esiste il Bene ed esiste il Male, ma soprattutto ci vuole poco ad identificarli. Solo Nick fa fatica e di lì a poco viene costretto a fare i conti con questa sua mancata perspicacia. Tuttavia, come evidenziato poco sopra, Escobar non si atteggia a ciò che non è, cercando di rimanere coi piedi per terra, raccontando una storia. Quella di un giovane caduto in una ragnatela da cui apparentemente non c’è alcun modo di sfuggire.

Emerge pure una venatura di mito nella misura in cui, consapevolmente o meno, il film di Di Stefano allude a questo ragazzo che si allontana troppo dal recinto, là dove nessuno può proteggerlo, segnando al tempo stesso quel rito di passaggio ineludibile ed in questo caso violento. Ed è onesto, come scritto sopra, proprio in virtù di questo suo tenere conto della posta in gioco, di non forzare troppo malgrado le necessità narrative, il bisogno di tenere desta l’attenzione pur parlando di una vicenda per lo più fittizia sebbene tratta da un episodio realmente accaduto.

Il tempo sospeso di cui all’inizio di questo scritto non si riferisce perciò all’ambizione di partenza, quella di abbandonare un mondo fatto di ritmi sfrenati e squali che non guardano in faccia a nessuno; no, la pausa avviene nel momento in cui Nick, tra un flashback e l’altro, si trova a quel bivio che implica la vita e la morte. Non la sua però, perché se c’è un ruolo che davvero mette alla prova l’umanità di ciascuno non è quello della vittima bensì del giudice. Una traccia interessante, alla quale purtroppo non fa seguito uno svolgimento altrettanto coinvolgente. Quando Nick è chiamato a portare a termine la sua ultima missione per un attimo anche noi si avverte il fiato sul collo del mostro che da padre muta in carnefice; però è tutto lì, il potenziale si perde, almeno in parte, in questa atavica premessa.

E dire che i presupposti per qualcosa di ben più corroborante c’erano tutti. Vanificare infatti la presenza di Del Toro, che nei panni di Escobar è praticamente nel suo elemento, è ragione sufficiente per dirsi contrariati. Quanto al personaggio di Hutcherson, il suo essere così esposto all’inevitabile confronto lo fa uscire con le ossa rotte. Scorgiamo esserci di più oltre l’apparenza, che quei due sono spiritualmente legati da altro rispetto alla parentela acquisita, solo che la cosa resta lì senza mai emergere davvero. Una sensazione volendo anche un pelo frustrante, perché difronte ad un brutto film è facile farsene una ragione, mentre in Escobar l’impressione che non si riesca a far partire l’innesco malgrado il detonatore sia a portata di mano è forte, dunque avvilente.

Non dispiace l’intenzione di Di Stefano, che opta per un thriller più ragionato, competente ma non al cardiopalmo, lasciando che i conflitti di fondo ci tocchino anche se poi alla fine per lo più ci sfiorano. Il trade off però non ripaga appieno, tanto da chiedersi se il gioco sia valso la candela. L’andatura cadenzata di questo suo ritratto, che è quello di una fuga con ritorno, in realtà è meno pregno di ciò che sembra. Troppo dimesso, probabilmente perché troppo fiducioso nel carisma del suo co-protagonista e nella forza di una storia che tratta una situazione se vogliamo estrema. Da tale sproporzione viene fuori il film, piccolo, girato con criterio ma che ci passa davanti con eccessiva disinvoltura.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]

Escobar (Escobar: Paradise Lost, Francia/Spagna/Belgio, 2014) di Andrea Di Stefano. Con Benicio Del Toro, Josh Hutcherson, Brady Corbet, Claudia Traisac, Carlos Bardem, Ana Girardot, Laura Londoño, Lauren Ziemski, Henry Bravo, Aaron Zebede, Micke Moreno, Elmis Castillo, Tenoch Huerta, Frank Spano. Nelle nostre sale da giovedì 25 agosto.