Ma che fine hanno fatto gli sceneggiatori? Un mestiere qualunque…
E’ accaduto quel che non deve accadere, e cioè che il cinema e la tv stiano soffrendo molto per la mancanza degli sceneggiatori che salvavano i film, e ora sono stati ridotti a semplici copisti…
Qui è accaduto qualcosa di grave che viene dimenticato, tutti lo sanno, qualcuno ne ha scritto qualcosa; poi tutto è caduto nel dimenticatoio se non nella tomba dove c’è un onesto e monumentale cimitero di elefanti. Elefanti perché bravi, famosi, influenti, una garanzia per i produttori, i registi, i film, il pubblico che cerca storie vere e ben raccontate. Da sempre, e trova sempre meno chi è capace di capire come accontentare, convincere gli spettatori dignitosamente.
Il cinema italiano, in questo senso, ha avuto stagioni importanti. I nomi sono stranoti ma dimenticati, anche se qualcosa viene pubblicato su di loro e sul loro lavoro ma quasi sempre si tratta di cose, cosette, cosucce; e quasi mai di valutazioni e di studio sulle tecniche usate, inventate, spesso formidabili. Comunque utili. Si citano sempre i soliti, meritevoli, nomi che ripeto velocemente: Cecchi d’Amico, Flaiano, Pirro; a cui aggiungo Pasolini, La Capria, Medioli e altri scrittori fedelissimi a registi come Visconti, Rosi, Petri…
Punto e basta, sulla figura degli sceneggiatori è calata una nebbia fitta, fitta come accade nel film di Fellini, “Amarcord”: quella del vecchietto che si smarrisce nel buio bianco della Romagna. Lo spunto per questo tema me lo ha dato un articolo sul Sette del Corriere, scritto da Paolo Martini che spesso, quasi sempre, azzecca, parla anche indirettamente alla tv italiana. Martini parte dall’America in cui Emily Nussbaum, critico, si è fatta notare anche per avere scritto che “Sex and the City” valeva tanto quanto il più idolatrato telefilm del Rinascimento del genere, ossia “I Soprano”. Di recente, la Nussbaum per le nuove serie dei vari Netflix, Hulu, Amazonl Emily ha coniato l’espressione “The Caramel Epoch”, a indicare che è un fenomeno buono giusto per far ingozzare di storie qualunque un pubblico che le consuma come fanno i bambini con le caramelle. Con lei, si sono schierati altri. Ma lasciamo cadere…
Bene, veniamo a noi. Penso che lo spunto vada benissimo per parlare delle nostre televisioni che producono fiction e quindi allargarlo al cinema. Sì, la tv italiana ama, ha sempre amato le caramelle. Non c’è bisogno di fare qualche titolo, ce ne sono poche, pochissime che non sia di questo tipo. Se poi si obietta che “Gomorra”, per i tuoi toni, talvolta trucidi per scelta molto molto voluta, non offre caramelle, si può rispondere che i toni trucidi distillano un altro tipo di caramelle, caramelle amare, che vanno giù come pillole generiche per soddisfare un pubblico in piena depressione. Il pubblico fatto di numeri che ingurgita tutto, volentieri caramelle amare per sentirsi un po’ su: siamo nella cacca e bisogna guardarla in faccia.
Il tema è generale. Ho la netta impressione, anzi convinzione, che la malattia delle caramelle amare o al fiele, tutte accettate e infilate in gola, sia stata ormai importata in massa nel nostro Paese. I soggetti, le sceneggiature, i copioni- tranne qualche eccezione, ma quasi irrilevanti- sono caramelle già guaste che escono dalla stessa fabbrica di gelati o di pop corn. Cibo indifferenziato per occhi-orecchi- stomaci ormai predisposti ad accogliere qualsiasi pozione velenose caramellata. Pensateci.
Quale fiction o film di qualità ricordate, senza ricorrere ai soliti quattro titoli, quattro nomi, da cui emerge il succo caramellato strozza storie, personaggi, dialoghi. Come stabilirlo? Facile. Basta ricorrere alla memoria stitica nel ricordare nomi significativi. La creatività omogeneizza il dolce saporito, il disturbo della bocca e dello stomaco. Provate a citare qualcosa di diverso, nella montagna di pop-corn nauseabondi di zuccheri e vasellina.
Vi ricordate titoli, nomi di autori e sceneggiatori? Ve li ricordate? Sono diventati mestieri qualunque, per cui la livella ha steso ogni qualità, gradi e ambizioni di qualità?