Dark Night: recensione in anteprima del film di Tim Sutton
Dark Night suona come The Dark Knight Rises, ovviamente. E Tim Sutton parte dalla strage di Aurora, Colorado del 2012 per il suo j’accuse sulle armi e la violenza in America. Però vola anche altrove, altissimo, e firma il suo capolavoro. Il film più potente dell’anno.
Non hai l’impressione che l’abbia girato Gus Van Sant, eppure Dark Night dovrebbe in linea teorica essere il film più pericolosamente vansantiano tra quelli firmati da Tim Sutton, che sin dall’esordio ha dimostrato di dovere qualcosa al regista di Portland. Eppure rispetto a un Elephant, titolo al quale per ovvie ragioni si collega il suo terzo film, Sutton dimostra di avere già uno stile riconoscibile, in cui alla descrizione di comunità alla Memphis si unisce l’innocente tocco rarefatto di Pavilion.
Forse più immediatamente ricollegabile a Pavilion piuttosto che a Memphis, per il suo essere più virato verso il malinconico, Dark Night è comunque un film diverso dai precedenti del suo regista. Anche per le evidenti intenzioni ‘nobili’ e alte che partono dal massacro di Aurora, Colorado, durante la proiezione de Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno.
La prima inquadratura del film è quella di un occhio in dettaglio, con le pupille bagnate da una luce a intermittenza blu e rossa. Vista la premessa del film viene da pensare che si tratti dell’occhio di una persona che sta guardando un film, e invece quei due colori sono quelli delle luci della macchina della polizia: una ragazza fissa il vuoto seduta su un marciapiede fuori da un cinema accanto a delle volanti. La violenza è da poco entrata a bruciapelo nel posto di svago degli Americani per eccellenza.
Fortunatamente Dark Night non è un documentario, anche se una delle due storie è principalmente un’intervista vera (quella ad Aaron Purvis, ragazzino chiuso in casa con la madre, colpevole di un non ben identificato reato). Sutton rielabora la realtà con un approccio minimalista e uno stile che ancora oggi si definisce ‘documentaristico’ (ma sarebbe meglio definirlo ‘osservazionale’), e decide di rielaborare la realtà attraverso la finzione perché solo così può dialogare con lo spettatore in un modo né ovvio né scontato.
È vero che i personaggi sono eccetto Purvis tutti di finzione, anche se con i loro ‘caratteri’ a loro modo riconoscibili. C’è la donna ossessionata dalla ginnastica e soprattutto dai selfie, che non finisce mai di scattare con lo smartphone. Ci sono le due ragazze giovani che lavorano in un grande magazzino e chissà se avevano mai puntato a diventare qualcos’altro. Ci sono i due amici skateboarder, il veterano di guerra, e un giovane ragazzo riccio e dagli occhi azzurrissimi.
Una delle tante trovate spiazzanti di Dark Night è quella di giocare con l’identità del killer, che lo spettatore sa di certo trovarsi fra il folto gruppetto di persone solitarie che ci vengono introdotte. Nessuna malizia da parte di Sutton in questo, anche perché pare piuttosto ovvio che il killer sarà infine il ragazzo con gli occhi azzurri che si aggira da solo per le villette del paesino con il fucile.
Ma il killer in fin dei conti potrebbe essere senza alcun problema anche uno dei due skater, forse quello che si è tinto i capelli di arancione proprio come James Holmes, il killer di Aurora nelle famose fotografie. È evidente che in Dark Night l’identità di Holmes si è divisa. Holmes esiste nel mondo del film, visto che si vede in un’intervista alla tv, come a ribadire che il massacro a cui assisteremo – se mai ce ne sarà uno – non è quello di Aurora.
Fatto sta che James Holmes è un po’ in tutti i personaggi del film, e dopotutto non potrebbe essere altrimenti. Anche la maschera di Bane, villain de Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno, disegnata in modo minimal ma assai efficace nella locandina è, a tratti in modo quasi subliminale, sparsa ovunque per la cittadina, disegnata sui muri o sulle colonne, messa lì in un angolo dell’inquadratura.
Splendidamente fotografato da Hélène Louvart e graziato dalle musiche da un altro mondo di Maica Armata, Dark Night è un film dallo stile meraviglioso che parla di violenza, nello specifico della violenza intrinseca di un paese. È soprattutto un film sull’atto del guardare, e mica si apre su un occhio per caso. È un film sul guardare un film al cinema mentre fuori dilaga la violenza, e questa violenza ormai è entrata anche in quella sala, creando un precedente come la Columbine lo fu per le scuole.
Al contrario di Elephant però, Dark Night è un film di una violenza sconvolgente senza essere violento. Si veda la scena in cui il presunto killer fa silenziosamente entrare il fucile dalla finestra e si trova a pochi centimetri da due ragazze che cantano You Are My Sunshine, quasi leitmotiv del film. Oggi non c’è miglior critica sociale, perché la violenza sul grande schermo l’abbiamo già vista. Più difficile è invece ipnotizzare lo spettatore con stile minimalista, quindi con i puri elementi cinematografici, trasportandolo inesorabilmente dove lui crede che si stia andando a parare.
E invece il finale è ancora una volta spiazzante, roba che ti fa venire la pelle d’oca e che ti fa venir l’istinto di guardare l’uscita di sicurezza. Sutton nell’ultima parte di Dark Night si concede davvero un colpo d’ala geniale potentissimo, che ribadisce in modo elegiaco l’importanza della sala cinematografica come esperienza purissima e che allo stesso tempo offre la risposta cinematograficamente più giusta alla situazione fuori controllo degli States. Anche dalla morte, Tim Sutton, distilla dolorosa ma necessaria poesia.
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”10″ layout=”left”]
Dark Night (USA 85′, drammatico 2016) di Tim Sutton; con Robert Jumper, Karina Macias, Aaron Purvis, Rosie Rodriguez. Sconosciuta la data d’uscita italiana.