Cannes 2016: voti e considerazioni finali
Festival di Cannes 2016: non solo una delle edizioni migliori degli ultimi quindici anni ma anche uno dei Palmares più discussi degli ultimi quindici anni. Questo ed altro ancora nel nostro resoconto a conclusione del Festival
Un altro Festival ce lo siamo lasciati alle spalle. Uno che sulla carta era senz’altro tra i migliori degli ultimi quindici anni o giù di lì, e che malgrado tutto ha mantenuto le promettenti premesse. Non tutti condivideranno tale giudizio, specie perché a deludere non sono tanto stati gli sbertucciati Xavier Dolan e Nicolas Winding Refn (quantunque aggrediti e in malo modo), bensì i veterani. Ora, Loach avrà anche vinto, e tra i maestri è stato quello trattato meglio; ma non ci dimentichiamo cosa è stato detto dei vari Almodovar e Dardenne soprattutto, così come di Farhadi, che porta a casa addirittura due premi.
Insomma, più che la parola fine, la Cerimonia di ieri dovrebbe segnare l’inizio di qualcosa: chiusura di un Festival, apertura di un discorso. C’è chi invoca l’integrazione di più registi, direttori della fotografia, critici e sceneggiatori nelle prossime Giurie, mentre in generale la critica preferisce trincerarsi dietro sfottò e insulti all’indirizzo di chi sembra aver rovinato tutto con un Palmares giudicato, nella migliore delle ipotesi, indecente (come indirettamente testimoniato, suo malgrado, anche dalla classifica finale di Screen International, termometro grossomodo fedele dei sentimenti tra gli addetti i lavori intervenuti in questi giorni presso la Croisette).
#Cannes2016: 'Toni Erdmann' tops final Screen Jury Grid: https://t.co/D20WHXPNGZ pic.twitter.com/ULRGN75N43
— Screen International (@Screendaily) 22 May 2016
E si badi bene, ciascuno ha le sue ragioni per avversare così strenuamente i verdetti resi noti ieri sera. Tradite, almeno in parte, le istanze femministe di chi per tutto il Festival non ha fatto altro che strillare proclami ideologici che col cinema hanno poco o nulla a che fare, denunciando una ristrettezza intellettuale disarmante; frustrati coloro che non si sono voluti chinare verso quei registi che hanno proposto qualcosa di diverso, spettacolarmente difettoso, e che invece meritava quantomeno una chance. Refn, nella conferenza più bella dell’intero Festival, lo ha detto chiaramente, in risposta a chi gli ha chiesto lumi sul perché il suo The Neon Demon abbia diviso così tanto:
[quote layout=”big” cite=”Nicolas Winding Refn]L’Arte non ha più a che vedere con bello o brutto; quel tempo è andato. Internet ha cambiato le cose. Perciò i film, come forma d’Arte, sono esperienza. Buona o cattiva come può esserlo stato il cinese che hai mangiato ieri, la bistecca al pepe o che so… il bistrot francese in cui sei stato ieri sera. La creatività ha a che vedere con la reazione che se ne ha a riguardo. E la reazione è l’essenza di un’esperienza; l’essenza di un’esperienza è generare pensiero. Se non reagite, che ci state a fare qui? Perché perdete il vostro tempo qui? Voglio dire, con tutte le cose che potreste fare e per cui vale la pena vivere, perché guardare un film o la TV? Per passare tempo? Questo è stupido.[/quote]
Affermazione che né buona parte dei critici né i giurati hanno voluto prendere in considerazione. Sia chiaro, non prendo affatto le distanze da chi per esempio ha amato l’ultimo Jarmusch, così come non mi dico affatto tiepido riguardo ad Elle di Verhoeven, senza dubbio i due titoli migliori tra quelli in Concorso per quanto mi riguarda. Tuttavia rimane la distanza abissale tra una critica depositaria di chissà quale verbo da un lato, ed un gruppo di attori, registi, produttori e musicisti dall’altra. Questo non parlarsi, questo trincerarsi dietro logiche oramai vetuste, denotano una diffidenza a priori che fa male ad entrambe le parti. Uno status quo che non sembra destinato a mutare da qui a breve.
Basti pensare, prima di entrare nel merito dei film veri e propri, ad un altro verdetto, meno discusso poiché essenzialmente secondario, inerente a quell’Un Certain Regard che in pochi seguono nel corso del Festival. Vince il finlandese The Happiest Day in the Life of Olli Mäki, che è un buon film, che racconta una storia che abbiamo visto scibilioni di volte (molte delle quali raccontata pure meglio), che ha un buon attore protagonista e via discorrendo. Solo che non pare fosse il migliore (tocca fidarsi, dato che di film in quella sezione ne ho visti meno della metà). Una sezione che premia pure quel Captain Fantastic, pescato al Sundance, così conciliante e fricchettone che è però al tempo stesso film adattissimo per un pubblico mainstream, tanto che non stupirebbe sentirne parlare ai prossimi Oscar. In compenso il Gran Premio è andato al delizioso La Tortue Rouge, opera d’animazione europea ma sotto l’egida di Studio Ghibli, che tra l’altro arriverà in Italia per Lucky Red.
#MadsMikkelsen Xavier Dolan – during the 69th Cannes Film Festival awards ceremony https://t.co/TwaVd0gHgb pic.twitter.com/qFw8IqzAPn
— Mads Mikkelsen Arg (@MikkelsenArg) 23 May 2016
In un mondo più giusto il premio per la Regia sarebbe andato al regista che si è occupato della diretta della Premiazione su Canal+, mentre quello per la miglior interpretazione maschile a Mads Mikkelsen.
Ad ogni modo, tornando a bomba sulla premiazione che più conta, piaccia o meno un messaggio l’ha lanciato. Si tratta di scelte che esulano da giudizi marcatamente artistici, il che è molto discutibile, ma che al tempo stesso denunciano una posizione piuttosto chiara circa il criterio di selezione: si è quindi voluto premiare quei film che sono stati in grado di parlare più a cuore aperto, di dire qualcosa sull’oggi, di toccare sentimenti universali.
Così si spiega la Palma a Ken Loach, il cui protagonista è un uomo sopra i cinquanta a cui viene negata la pensione per via di un frustrante cavillo burocratico ma che, nondimeno, continua ad aiutare il prossimo e rendersi utile come può; così si spiega il secondo premio a Xavier Dolan, il cui Juste la fin du Monde è ritratto viscerale, doloroso, che, sebbene non in tutto e per tutto riuscito, gioca sempre con quei due/tre elementi che hanno reso il giovane cineasta Québécois uno dei più acclamati degli ultimi anni, tra musica pop a palla e flashback strappalacrime; così si spiega l’amore per Farhadi, che con i suoi dilemmi morali ci parla di un’area così complessa come quel Medio Oriente a cavallo tra Tradizione e Modernità; così si spiega finanche il successo di Andrea Arnold, che finge di girare un documentario su una realtà che evidentemente non conosce così bene ma di cui coglie dei riferimenti per discutere sulla generazione addirittura successiva ai cosiddetti millennial (se questa è la Y, la prossima cosa sarà… Z?), il loro disorientamento, il loro vivere senza più radici; così si spiega la presenza di Mungiu, spaccato tra satira e realismo dell’odierna Romania; quanto alla Joclyn Jose, miglior attrice, beh, secondo me è stata l’ultima scena di Ma’ Rosa a consentirle di ottenere tale riconoscimento. Unica licenza Assayas, premio anch’esso impopolare ma dettato da logiche più cinefile mi pare. Volendo poi uniformarsi a questo presunto criterio della Giuria, avrebbe avuto molto senso inserire Maren Ade, il cui Toni Erdmann in fin dei conti allude a un discorso analogo a quello di Loach, come giustamente è stato suggerito, e per di più con centrata ironia e su scala globale.
Quanto ai miei preferiti, che dire? Mi sono invaghito di Paterson ed Elle, l’ho scritto già ieri, che reputo i due film più riusciti e per certi versi migliori del Concorso. Sono tuttavia estremamente soddisfatto di come Assayas e Refn mi abbiano stuzzicato, facendo film liberi, senza compromessi, anti-cinema, anti-critica, anti-tutto: senza strillare, come ha fatto Dolan per esempio, il cui ultimo sforzo però secondo ce lo riconsegna come cineasta e uomo più maturo, pronto allo step successivo, al netto di un naturale talento che a mio parere fa rodere il sedere a tanti, troppi critici. Nicolas Winding Refn, in particolare, è un po’ stato il mio eroe del Festival: dopo Only God Forgives pressoché chiunque si sarebbe industriato per fare pace col mondo, mentre il suo The Neon Demon è un imponente dito medio indirizzato a tutti coloro che, potendo, non gli permetterebbero più di girare alcun film di quelli che il regista danese realmente vuole fare. Chapeau.
Condivido anch’io la tesi secondo la quale i film di Almodovar, i fratelli Dardenne e Farhadi siano inferiori ai rispettivi precedenti (nel caso del regista spagnolo, con precedente mi riferisco a La pelle che abito e non a Gli amanti passeggeri, che rappresenta più un intervallo pazzerello): film discreti, nel caso dell’iraniano addirittura buoni, ma l’unico su cui vorrò tornare con più calma è Julieta. Gli altri sono quello che sono. Toni Erdmann è una commedia agrodolce con almeno due trovate geniali ed uno dei brani più azzeccati di sempre sui titoli di coda (Plainsong dei Cure).
I due rumeni invece mi sono sembrati i più lucidi in assoluto, sebbene quello da premiare fosse Puiu e non Mungiu stavolta. Sieranevada è un gioiello che non andava scartato con così tanta superficialità, scritto e girato benissimo; a prescindere dai miei desideri personali, avrei gioito comunque se la Palma fosse andata a lui. A proposito di “scippi”, passi non voler dare nulla alla Huppert, migliore interpretazione femminile in un Festival per la seconda volta in pochi mesi (l’altra è stata a Berlino ad inizio anno), senza vedersi riconoscere alcunché; ma la Sonia Braga di Aquarius sarebbe stata la vera scelta sensata, oltre che un segnale di cui il cinema brasiliano avrebbe avuto bisogno. Ma tant’è. Ma Loute è divertente e fuori dagli schemi, pure se un po’ lungo, e conferma Dumont in questa sua nuova veste dark-comedy che sinceramente spero continui ad affinare. Con The Handmaiden abbiamo invece un Park Chan-Wook più programmatico, eppure così raffinato ed elegante che averlo in Concorso è stato comunque doveroso.
Loving di Jeff Nichols una delusione: storia potente, vanificata da una tenuta che gli americani si sono affrettati a definire all’incirca in questo modo, ovvero “convenzionale ma nell’accezione migliore e più competente del termine“, mentre per me è semplicemente un ritratto asettico e registicamente arrendevole a del materiale di siffatta portata. Salvo Ruth Negga, forse pure Joel Edgerton, per il resto non trovo alcun punto di contatto. Peggiori di lui solo i due francesi Rester Vertical e Mal de Pierres. Al primo quantomeno riconosco l’aver osato, e nonostante tutto apprezzo il tentativo. Al secondo invece non va riconosciuta alcuna attenuante: vecchio, non tradizionale (attenzione), insensato. Se solo Sean Penn non avesse omaggiato questa edizione col film peggiore degli ultimi non-so-quanti Festival, la Palma al contrario sarebbe senz’altro andata di diritto a Nicole Garcia.
Top 8 #Cannes2016
1) La Mort de Louis XIV
2) Paterson
3) Neruda
4) Elle
5) The Neon Demon
6) La Tortue Rouge
7) Sieranevada
8) Toni Erdmann— Antonio Maria Abate (@antomaaba) 21 May 2016
Cannes però non è solo Concorso, grazie al cielo. Purtroppo non sono riuscito a recuperare granché altrove, perdendomi in toto addirittura la Semaine. Ma ci sono tre film che non posso esimermi dal menzionare, che oltretutto si trovano nella mia Top 8 dell’intera edizione. La Mort de Louis XIV, il mio preferito in assoluto, Storia attraverso l’Arte, con un approccio al soggetto oltremodo intelligente; se ne vorrebbero di più di opere così. Neruda, ultimo lavoro di Pablo Larrain, ancora una volta snobbato da Fremaux e soci; il cileno non si ripete nemmeno una volta, ottenendo sempre un film diverso rispetto al precedente, eppure così ancorato alla sua idea di cinema. A chi ha abbandonato la sala durante l’ultima proiezione de La Tortue Rouge ho scritto che mi auguravo fossero andati a riprendersi l’anima che avevano lasciato fuori prima di entrare: l’unico film del Festival per cui mi si sono gonfiati gli occhi per via di qualche lacrima.
Questo è stato il mio Festival di Cannes 2016. Duro, provante, il cui coefficiente di difficoltà è stato rivisto verso l’alto in virtù del doverlo coprire in solitaria. Ad ogni buon conto una delle esperienze più gratificanti da quando ho cominciato a scrivere di film, di cui mi tengo tutto, compreso il grottesco Palmares, che dalla mia prospettiva non intacca in nessun modo dieci e passa giorni di film d’alto livello, di incontri importanti, conoscenze preziose e tanta roba da scrivere e condividere con chi ha avuto la voglia (e si spera anche il piacere) di seguire con me su queste pagine quanto accaduto sulla costa a Sud della Francia nelle scorse due settimane. Di seguito i voti a tutti i film visti. À la prochaine.
VOTI E RECENSIONI
Concorso
Sieranevada – 8
Rester Vertical – 5
Ma Loute – 7.5
I, Daniel Blake – 7.5
Toni Erdmann – 8
The Handmaiden – 7.5
American Honey – 8
Mal de Pierres – 4
Paterson – 9
Loving – 5
Personal Shopper – 8
Julieta – 6.5
Aquarius – 7.5
Ma’ Rosa – 7
La fille inconnue – 6
Juste la fin du monde – 7.5
Bacalaureat – 7.5
The Neon Demon – 8
The Last Face – 1
Elle – 9
The Salesman – 7
Fuori Concorso
Money Monster – 6
Il GGG – Il grande gigante gentile – 7.5
La Mort de Louis XIV – 10
The Wailing – 5
Un Certain Regard
Uchenik – 3
Pericle il Nero – 6
The Happiest Day in the Life of Olli Mäki – 6
Captain Fantastic – 6
The Transfiguration – 6
La Tortue Rouge – 8
After the Storm – 6.5
Hell or High Water – 7
Quinzaine des Réalisateurs
Neruda: 9
Risk: 7
La pazza gioia: 6.5
Dog Eat Dog: 5