Cannes 2016, Neruda: recensione del film di Pablo Larrain in Quinzaine des Réalisateurs
Festival di Cannes 2016: il Neruda di Pablo Larrain è lirico, una forma di realismo che ha pochi eguali in circolazione per incisività e potenza
[quote layout=”big”]In politica l’insolenza è una sana forma di ammirazione.[/quote]
Pablo Larrain prosegue il suo personale discorso intorno al suo Cile, e lo fa con una prosa che ancora una volta fa a meno di ripetersi. Non si tratta di fare a meno di copiare sé stesso: Larrain, di nuovo, cambia proprio pelle. Sembra passata un’eternità da Tony Manero, o per lo meno, a prescindere dai giudizi di valore, sembra di trovarsi dinanzi ad un altro cineasta, mosso dalla medesima schiettezza ma comunque diverso. Altra è la fotografia, per esempio, malgrado il DOP sia ancora il fidato Sergio Armstrong: un digitale usato in maniera sublime, specie in una delle scene finali, con una nevicata che sembra quasi poterla toccare.
Lasciamo stare No, che pure è film a sfondo politico nel senso che vi entra nel merito senza esitazioni, ma che è distante parecchio da Neruda, il quale, per certi versi, potrebbe essere una sorta di prologo. Quest’ultima fatica del regista cileno, al contempo, non è nemmeno un biopic, dato che il nostro si abbevera a degli eventi realmente accaduti al celebre poeta per approntare un discorso tutto suo. Qualcosa di davvero accattivante, lirico.
Siamo nel ’48 ed il senatore Pablo Neruda denuncia pubblicamente il Governo connivente con gli Stati Uniti, in altre parole accusandoli di tradimento. Il golpe del 1973 non è ancora concepibile, ma Pinochet è già attivo e se si arrivati a quel punto, sembra dirci Larrain, qualche presupposto lo si può già rintracciare nella vicenda relativa alla clandestinità di Neruda. Quest’ultimo viene infatti preso di mira dal Governo, in ragione della pericolosità dovuta al suo essere famoso. Comunista, bigamo, sono alcuni dei titoli che gli vengono appioppati a mo’ di calunnia. Un filo rosso evidentemente esiste.
A dargli la caccia è l’ispettore Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal), che dell’uomo che insegue diventa ossessionato. Neruda infatti è costretto a darsi alla macchia, coperto dai suoi compagni di partito, ma sostenuto dalla sua attuale donna, Delia, un’aristocratica argentina che lo ama profondamente. Un cast insomma all’altezza, altro elemento per cui difficilmente Larrain cede. Il resto non è possibile descriverlo, pena mortificare uno sviluppo meraviglioso, frutto di una visione chiara, sia in merito all’argomento trattato che in relazione agli strumenti con cui lo tratta.
Neruda è poesia, è opera, vive del suo incedere a spirale, da cui tra un ritmo fascinoso. Si resta quasi ipnotizzati da come Larrain sviluppa il suo racconto, fatto di sovrapposizioni, temi musicali ricorrenti, voci fuori campo. Siamo più dalle parti di The Club quanto a costruzione, che segue un filo cronologico lineare, salvo concedersi un montaggio onirico, che però non tradisce il realismo di fondo. Ma non è a quello che Larrrain aspira, ossia limitarsi alla mera esposizione dei fatti, dire come è andata insomma. Al regista cileno interessano i personaggi, con particolare riferimento alle condizioni che si trovano a vivere in un dato momento.
Tuttavia Larrain non si è forse mai spinto fino a questo punto nel creare connessioni, interpretare con così tanta libertà moti e passioni dei suoi protagonisti. Si tratta forse del suo film più sentimentale, in cui emerge una vicinanza umana dettata anzitutto dalla sua sensibilità. In Neruda si affaccia un discorso antichissimo, ma su cui non ci si deve mai smettere di interrogare: qual è il ruolo dell’Arte? Non solo nella Politica, definita la cosiddetta Arte del possibile, ma in relazione alla quotidianità, a partire proprio dagli aspetti più triviali, banali.
In una scena una donna iscritta al partito da oltre un decennio, brilla ma non ubriaca, trova il coraggio di avvicinare il grande Neruda ponendoli un quesito imbarazzante ma pertinente come pochi, lei povera e dimenticata, lui ricco e celebrato: «quando il comunismo sarà realizzato e tutti saranno uguali, saranno tutti come lei o come me»?
Una domanda tremenda, che da sola vale tutto. Qui è lo stesso Larrain che s’interroga o che interroga non soltanto chi ha creduto o ancora, nostalgico, crede a certi ideali; l’invettiva va più in profondità, entrando nella carne proprio. Se l’Arte non ci consente di migliorare noi, chi ci sta accanto ed il contesto in cui ci muoviamo, allora che senso ha? Una risposta, sommaria, si ricava forse dal Neruda della seconda metà, meno logorroico e sprezzante rispetto alla prima, che si limita a poche ma significative azioni, fino all’ultima, quella più grande di tutte, che è un vero e proprio atto di compassione unito al perdono.
È il tema del doppio che irrompe prepotente, dapprima aleggiante, preparato con discrezione: finché non viene esplicitamente evocato. È un discorso sul suo cinema, quello che a questo punto porta avanti Larrain, il quale, sulla scorta del suo protagonista, ci ricorda che non esistono «personaggi secondari»; malgrado, opponendo un discorso in negativo, non riesca nemmeno a dimostrare che tutti i personaggi siano gli stessi. No, si tratta semplicemente di arrendersi all’impossibilità delle catalogazioni, perché se c’è una cosa in cui tutti i personaggi di una data storia si ritrovano, quella è lo stare sulla stessa barca.
La vita perciò diventa l’Arte di saper stare al mondo, un continuo atto di amore non solo verso gli altri ma anche verso sé stessi. Senza illudersi che tale ideale sia alla portata di tutti, o anche solo di molti; in questo senso Larrain è quello di sempre, duro, velatamente rabbioso, propensioni che filtra mediante il solito sarcasmo. In altre parole, realista. Si tratta di capire a chi rivolgere cotanto sdegno, ricordando(ci) che quella è strada al cui fondo si trova un vicolo cieco. Il suo Neruda lo sa. E lo sappiamo anche noi. Basta questo a cambiare le cose?
[rating title=”Voto di Antonio” value=”10″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”10″ layout=”left”]
Neruda (Cile, 2016) di Pablo Larrain. Con Gael García Bernal, Alfredo Castro, Luis Gnecco, Antonia Zegers, Pablo Derqui, Mercedes Morán, Marcelo Alonso, Francisco Reyes, Alejandro Goic, Jaime Vadell, Diego Muñoz e Michael Silva. Al cinema dal 13 ottobre 2016.